Le folte foglie, e suoi sospiri invia 25Zefiro vago alla diletta Clori.
Nè meno a sera, e sul mattin discioglie
Note più chiare Filomena, e porge
Alto diletto co’ soavi accenti.
Che direm di costei? piange sue doglie 30Per la memoria degli antichi affanni?
O d’amoroso ardor sfoga i tormenti?
Meraviglia non sia; poi che nell’onde
Impiaga i pesci, e negli erbosi campi
Non lascia gregge Amor, che non soggioghi, 35Ne sull’alpe animal, che non avvampi.
Per entro il seno a sì gentil foresta,
Cui fa contrasto in van, quanto ne scrive
Intorno agli orti del Signor Feace
L’antica fama, e sulle Tempe Argive. 40Tondeggia di colonne un doppio giro,
Marmi di Paro; e si rinchiude in loro
Onda, cui fa sentier lunga caverna,
A cui non scalda il Sol quando più ferve
I corsi opachi, ed i cui tersi argenti 45Limpidissima Najade governa:
Sulle colonne da scarpelli industri
Sculti son vasi peregrini, e quivi
D’infinita beltà serbansi fiori:
Croco, giacinto divenuti illustri 50Per lo favoleggiar del buon Permesso,
E l’orgoglioso, che sprezzava i preghi
D’Ecco dolente, e sulla chiara fonte
Acquistò morte in vagheggiar sè stesso;
Vago diletto a riguardar. Nè meno 55Danno diletto altrui piante straniere:
Altra sorse nei regni dell’Aurora,
Tepidi liti, e rimir siccome
Al mattutino Sol l’umida Teti
Con la cerulea man lava le ruote; 60Altra venne di là, dove rimira
Elice bella carreggiar Boote:
E sul nuovo terreno appien cortesi
Di lor bellezze ogni stagion fan lieta:
Sprezzan del verno i duri oltraggi, e sanno 65Alloggiar Primavera in strani mesi:
Nè questo pregio è quivi sol; più grande
Narrarne io vo’: fra le colonne han posto
Mille canne di bronzo, onde si cigne
Il pelaghetto, e dalle terse canne 70Umida Ninfa inverso il ciel sospigne
Ben mille chiari ruscelletti: allora
Par che sottile si dispieghi un velo,
Cui se percote il Sol, rimiri un’Iri,
Ch’Iri sì vaga non adorna il cielo; 75Ma la bella onda ch’avventossi in alto
Trabocca in giù piogge minute e chiare,
Per cui tutto increspando il sen d’argento
Vedesi ribollir quel picciol mare;
Stanza a’ mortali disiabil: certo 80Chi può qui dimorar quando cocente
Sfavilla il giorno, ei d’ogni ardor disprezzi
Ogni spavento; e chi di cure ingombro
A si bel suon può trapassar le notti,
D’aspre vigilie non avrà tormento, 85Sì nell’acqua de’ fonti ei si trastulla,
E scherza Cosmo al Ciel diletto, e desta
Nei cortesi stranier dolce stupore.
Ma nell’acqua dei mari egli non scherza;
Alza l’antenne, e fulminando in guerra 90I barbarici petti empie di orrore:
Cara fatica alle Castalie Dive,
Per cui d’altiere corde armano cetra
Da sonarsi d’Asopo in sulle rive.
Però qui taccio, ed alla vista io torno 95Dei regj laghi: nel vivace argento
Non spiacevole carcere, si pasce
Franco dagli ami, e non paventa rete
Di muti pesci uno squamoso armento:
E qual volando per gli aerei regni 100Tessono giri, in lor cammin confusi,
Angei dipinti, in guisa tal guizzando
Quivi ad ognor le natatrici schiere,
Per le liquide vie fan laberinti.
Quivi ha non manco, anzi più cara sede, 105Che negli stagni del Caïstro, e solca
Il non salato mar turba di cigni:
Essi fanno cammin, col largo piede
Lenti remando, e sul ceruleo piano
Sembrano navigar carchi di neve, 110Nulla temendo dello sguardo umano:
Ed a ragion, chi tenterebbe oltraggio
Dell’auree Muse a sì gentil famiglia?
Quando credersi dee ch’a sì belle acque
Scendano assai sovente, almen velate, 115Non degnando di sè mortali ciglia;
Io qui per certo una ne vidi un giorno;
E che ciò fosse il mi dicea suo canto,
Che le cose del ciel molto somiglia.
Nel più riposto sen dell’onde terse 120Siede Isoletta: ed ella serba in grembo
Loggia, pure a mirar, stanza di regi;
Contra il furor delle stagion perverse
Sostengono colonne altiero tetto,
Libici marmi ed artifici egregi: 125Qui donna io scorsi dell’età sul fiore
Bruna le chiome, e su Dedalea cetra
Faceva risonar note soavi
Con vario canto, e rallegrava il core:
Ella dicea le meraviglie antiche 130Del grande Atlante, e celebrava il duce
Ch’a gir per l’aria, e su Nettunj regni
Di forti piume si cingea le piante:
Cantava gli orti, ove fioría tesoro
Ch’altrove in orto non mirò Pomona, 135Singolar pregio delle Esperie genti;
E rammentò, ch’a ben guardarne il varco
Vegghiava eternamente angue feroce
Con tosco rio di formidabil denti.
Quivi l’inclita donna alzò la voce, 140E disse lieta: il regnator dell’Arno
Tesor non ama, ch’a terribil mostro
Sia dato in guardia: ei con la man cortese
Espone agli altrui voti alta ricchezza,
E sempre intento ad immortal virtude 145L’arene d’Ermo, e di Pattolo sprezza.
A questi detti rischiararon l’onde
I lor cristalli, e sulla piaggia intorno
Tutte vedeansi rinverdir le fronde:
Fuggian le nubi, e per lo ciel sereno 150Più che mai trascorreano aure gioconde.