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218 poesie

255Tra questi era Ruggier, campione invitto,
Se vibra l’asta, e di valor gentile
Il mondo tutto ad illustrar possente.
A costui porsi aíta, e lungi il trassi
Da questa tigre, e da’ suoi scempi indegni,
260Non già da te, ch’ei la tua face inchina,
E porge il nobil collo a tue catene.
Nacque sopra la Senna alma donzella,
Chiara di sangue e di beltà famosa,
Mirabile a veder, se spada impugna,
265O tra’ nemici il corridor sospinge.
Per questa egli arde, e già di loro il mondo
Giocondo attende successor guerrieri,
Che col pregio dell’armi i più gran cigni
Han da stancar, che unqua l’Italia avesse.
270Or pensa tu, se interrompendo il corso
Di cotanta virtù, devi sepolto
Tenerlo in sen della lasciva Alcina:
Nol farai certamente, anzi flagella
Questa malvagia, e sia per te palese,
275Che lei disprezzi, e che, se l’alme accendi,
L’accendi ad opre grazïose e belle.
Così disse Melissa, e per quei detti
Diverso dal primier prese consiglio
Amor pensoso. Ei fa venir l’Affanno,
280Duro ministro, e vuol che affligga Alcina.
Ei l’incatena, e di sua man la serra
Dentro dura caverna; ivi percosse
Con dura sferza l’odïose membra,
E l’empie voglie, e la lussuria doma.

IV

IL MUZIO SCEVOLA

AL SIG. AGOSTINO PINELLI.

     L’arida Invidia, venenosa i guardi,
Dell’umana Virtute i pregi eccelsi
Rimira intenta, e non men aspro il Tempo
Fassi nemico a’ celebrati nomi,
5E sparge a sua chiarezza ombre letee.
Ma lungo Eurota, e d’Aracinto in riva
Le fornite di canto inclite Dive
Muovono a’ fieri mostri altiero assalto
Immortalmente, e dagli Aonii chiostri
10Sparso di rai cetringemmato Apollo,
Sforza lor odio a riverir gli eroi;
E non indarno: i generosi spirti
Sprezzano rischi, e nel dolor son lieti,
S’hanno speranza di venire eterni.
15Ascolta dunque, e giù del petto in fondo
Serba, o Pinelli, i celebrati esempi,
Onde al vero valore altri è sospinto
Lunge dal vulgo. Tu colà ben forte
Muovi le piante, e con ben alti voli
20Colà ti chiama il gran valor degli avi;
Ma non per tanto esser ti dee men caro
L’almo campione, onde onorata è Roma.
     Poichè Porsenna, che de’ fier Tirreni
Reggea l’impero, disperò coll’armi
25I Romani sforzar prole di Marte,
Volse la mente con orribil fame
A trïonfar di quella gente invitta:
Contra ogni porta mise guardia, e chiuse
I varchi, ed ingombrò l’ampia campagna
30Di folte schiere, e divietò che ajuto
Non si appressasse all’affamate mura:
E già più volte su nel ciel trascorso
Avea la bella luna il picciol anno;
Onde tra sette Colli ivano meste
35Le turbe afflitte dal digiuno, e gli occhi
Mostravan egri; e dimagrati i volti,
E di via peggio era spavento: adunque
Come talor, che sotto Aquario sferza
Febo le rote luminose, ed ecco
40Pioggia versarsi, e rimugghiar le nubi
Con spessi tuoni fiammeggiando, allora
Forte s’attrista il montanaro, e cresce
Il duol, temendo, che saetta acuta
Uccida fra gli armenti alcun de’ tori
45Cornapuntati; a tal sembianza Roma
Sofferia danno, e per più reo periglio
Viveva in pena; ma de’ rischi al fine
Ritrovò scampo la cittade eccelsa.
Fra l’alma nobiltà, che il nobil Tebro
50Forte apprezzava, risplendeva in cima
Muzio per avi, e per parenti altiero,
Vago per età fresca, e fiero in arme,
Vibrando asta ferrata, e via più noto
Per meraviglia, che nascendo ei diede
55Alle del gran Quirino inclite turbe.
Quando s’espose, e dal materno chiostro
Sen venne sotto il sol, parve alla madre
Non già mirare un desïato bimbo,
Anzi mirare i paventati velli
60Di fier leone, e le donzelle intorno
Già non udiro ivi guaire Infante,
Ma tra le fasce sollevar ruggiti
Altieramente. Alto disperse il grido,
Nè tacque Fama l’ammirabil caso;
65Onde in qualunque parte egli appariva,
Ei venía segno a’ popolari sguardi,
Esso additando, ed ei nel petto interno
Tenea forte svagliati i suoi pensieri
Per opra far di singolar memoria,
70Ed al fin trasse i suoi desiri a riva.
Passeggiando le strade ampie di Roma,
Per quella etade un peregrin Tebano,
Caro di Febo oltre misura, voce
Avea cotal, che sul morire un cigno
75Con esso in paragon sembrava fioco:
Ma d’altra parte sue pupille afflitte
Notte premea di cecità natía,
Nè seco mai s’accompagnò ricchezza;
Ma per man liberal faceasi schermo
80Da’ rei digiuni, e provvedea cantando
Cerere e Bacco, onde nudrìa la vita.
Ora un giorno costui lungo esso il Tebro
Percotea di più corde arpa sonante,
Ed ascoltando d’ogn’intorno il vulgo
85Coll’orecchia bevea l’alte parole
Meravigliando: l’ammirabil cieco
Facea racconto dell’eccelse imprese,
Onde han corona i venerati eroi.
Foreste d’Erimanto, antri di. Lerna,
90E del corno d’acciar svelto Acheloo,
Argo, che in fabbricarsi, i monti argivi
Spogliò di selve, e che del Fasi i campi
Dieder non spiche, ma falangi armate:
Faceva udir, che il successor d’Egeo
95Già dall’Erebo trasse il caro amico,