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del chiabrera | 9 |
IV
per la principessa
D. MARIA MEDICI
regina di francia.
Se per l’antica etate
Nella foresta delle valli Idée
Contesa fu tra le superne Dee
Per pregio di beltate,
E se stimaro di bellezza il vanto
Dive, che d’ogni bene avean cotanto:
E s’al nobil Pastore,
Che la sentenza memorabil diede
Nè d’imperio, nè d’oro alta mercede
Nulla non mosse il core;
Ma promessa beltà sì lo sospinse,
Che ’l caro premio d’or Venere vinse.
Se così fu, Reina,
Che sei sull’Arno, qual sull’Indo il Sole,
Benignamente al suon di mie parole
L’altera orecchia inchina;
Nè disdegnar, ch’altre tue glorie io taccia,
E sol di tua bella memoria faccia.
Ben numerar potresti
Per meraviglia altrui numero d’Avi,
Scettri, Regi e Corone, inclite Chiavi,
Reami almi celesti;
E d’acerbo avversario i Duci estinti,
O per trionfo incatenati e vinti.
Ma quante al Mondo furo
Per imperio, e per ôr Donne possenti,
Per cui la fama intra l’umane genti
Copre rio nembo oscuro,
Là ’ve par ch’ad ognor fiammeggi, e viva
Per ardor de’ begli occhi Elena Argiva.
E se tanto s’apprezza
Rara beltà, ch’Europa afflisse, ed arse
Asia così ch’in sulla terra sparse
Sua più sublime altezza,
E per cui di dolor sospira ancora
Tetide in mare, e su nel ciel l’Aurora.
Quanto, o quanto sconviensi
A’ cari tuoi costumi, amabil Clio,
Se da donna real del cantar mio
Molto pregiar non pensi,
Dalle cui luci al Ciel care e dilette
Altera pace, altero amor promette.
Perchè beando avvampi,
Ha nella bella guancia avorj, ed ostri;
E perchè chiara strada ella ne mostri
Verso i celesti campi.
E le terrene tenebre consoli,
Nel bel Ciel della fronte ha duo be’ Soli.
Che con la man di neve
L’anime leghi in sulla cetra libera,
Che scherzando co’ suoni or tarda, altera,
Ora leggiadra, e lieve
Regga amorosa l’onorate piante,
Io sarei forse a celebrar bastante.
Ma che veloce in cella
Il corso rompa alle fugaci belve,
Che con asta superba empia le selve,
Di Deità novella:
Io dir non oso, e di mia lingua il suono
Debile a tanto impetrerà perdono.
O fra l’illustri e chiare
Bellezze eccelse, onde son servi i cori,
Beltà suprema, i tuoi veraci onori
Son veramente un mare,
E nocchier, ch’a lodarli ancora sciolga,
Riva non trova, che di porto il tolga.
V
PER CARLO EMMANUELLO
di savoja
conquistatore di saluzzo.
Forte, come un nembo ardente,
Messaggier del crudo Arturo,
Vibri, Carlo, invitta spada;
E tra’ monti di ria gente
Fatto intrepido, e sicuro
Verso il Ciel t’apri la strada.
O Real Giovane altero,
Nel cui petto il Ciel rinchiuse
Lo splendor di tutti i Regi!
Io non men per quel sentiero
Sferzò il carro delle Muse
Tutto carco de’ tuoi pregi.
Odo dir quaggiuso in terra:
Vil fra gli uomini è l’erede,
Che del padre inghiotte gli ori;
Se vestendo usbergo in guerra
Ei con opra non succede
Al retaggio degli onori.
Bella Clio, del vero amica,
Tu dal Ciel rispondi, o Dea:
Il mio Re, dirassi, è tale?
Non per certo, che a fatica
Sulla terra il pie movea,
Che alla gloria ci spiegò l’ale.
A gran notte in sulle piume,
D’Ottoman le turbe oppresso
Il tenean del sonno in bando;
Nè mai l’Alba addusse il lume,
Che la mente ei non volgesse
Verso il gran trofeo Vormando.
Or la fiamma orrida impura,
Di che Franca arsa ruina
In van torbida risuona,
Or l’Italia ci fa sicura,
Poscia umil Saluzzo inchina
Di Torin l’alta Corona.
Freme invidia, e morde il freno,
Irta i crin, viperea i guardi,
Arma l’arco, e la faretra;
Ma s’agghiaccia, e sì vien meno
Ascoltando il suon de’ dardi
Sulle corde della cetra.
Frale usbergo al buon Vulcano.
Per amar l’orribil figlio
Chiedea Tetide marina;
Se ’l gran Cieco di sua mano,
Per lui trar d’ogni periglio.
Non apriva altra fucina.
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