Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
190 | poesie |
Chi languisce bramando una Cornetta
D’uomini d’arme; chi sbandisce il sonno,
Desiando il Toson del re di Spagna;
25Cosi falta quaggiù trovo la gente.
Cotal sua contentezza..... O contentezza
Togli se sei cotal: Così dicendo
Le mani alzò con ambedue le fiche,
E fece un salto. Io nel mio cor dicendo:
30Deh guarda qual Plutarco o qual Platone
Ho ritrovato per la via di Roma?
Indi meco medesmo io ripensai,
Come sono quaggiù nostri desiri
I nostri manigoldi. Io son ben certo,
35O Borzon, che la fiera di Piacenza,
E di Nove e di Massa altri decreti
A’ suoi propone, e che l’aver tesoro
Tocca, secondo lor, l’ultima meta
Ma che? l’oro non passa oltra il sepolcro;
40Molti qui sulla terra abbraccian ombre:
Gracchi il mondo a sua posta fortunato;
Quaggiuso è l’uomo di virtude amico.
VII
AL SIG. BERNARDO CASTELLI.
Castello, se giammai co’ tuoi pennelli,
Onde onori le tele, a mostrar prendi
Qual sia la guerra, non ti venga in mente
Donna rappresentar, quantunque fiera,
5Quantunque cruda. Quelle teste orrende
Cittadine di Lerna, e gli spaventi,
Che fecero sudar Bellerofonte,
Dipingi in carte; a che fian poco. Un mostro
In cui regni il furor di cento mostri
10Hai da mostrar. Non prima cinge il fianco.
Qual sia guidon di rugginosa spada,
Ne prima sul cappel ficca una piuma,
Ch’ei sa giurar la fè di Cavaliere.
Ma cotal Cavalier, non è bestemmia
15Che ad onta del gran Dio del Paradiso,
Che in dispregio de’ Santi, egli non abbia
Ad una ad una, ad ora ad ora in bocca
Le spoglie, di che pensa ornar la patria
Son sacri arnesi d’oltraggiati Altari
20Pur con sua destra; i prigionier legati,
Che devono far pompa al suo trionfo,
Sono orfanelli di sforzate madri,
Nell’amiche città: predare i campi,
Arder le terre, abbandonar l’insegne,
25Truffar le paghe è guerreggiar moderno.
Ed hassi da sperar con queste squadre
Sottrar Sion dal dispietato giogo?
Gerusalem far franca? Aprire i varchi
Per adorar la sacrosanta tomba?
30Malnate fasce, e scellerate culle,
Infame età. Ma non voglio io, Bernardo,
Uscir dall’alma Tebe, e far dimora
Col celebrato latratore in Paro
Però dimmi, che fai? come ne meni
35Di luglio arsiccio le giornate odiose?
Godi della tua villa i gioghi esposti
Al trasvolar de’ zefiri? se credi
A vecchio amico, che non vide i fogli
Mai di Galeno, in guisa tal vivrai.
40Come semini fior la vaga Aurora,
Tu lascia lini, e vesti i panni, e poscia
A passo lento va cercando i monti,
Infin che alquanto ti riscaldi; ed indi
Su logge fresche ti riposa a mensa’;
45Ivi, ma parcamente, adopra il dente;
E di vin chiaro, e che non fumi, irriga
Più liberale, e più cortese il petto:
Quinci ti adagia, e di non lungo sonno
Vezzeggia il capo; e prega, che a tue ciglia
50Un papavero presti Endimione.
Come la cicaletta ha posto fine
A sue canzoni, tu discendi al piano;
Fa cammin breve, indi ritorna, e cena.
Alfin, come nel ciel faccia sue chiome
55Espero sfavillar, trova le piume.
Ma dà bando alle cure, e sian sommersi
Tutti gli affanni nel profondo obblío.
O figliuoli d’Adam, grida Natura,
Onde i tormenti? io vi farò tranquilli,
60Se voi non rubellate alla mia legge.
VIII
AL SIG. BERNARDO MORANDO.
Bernardo, in grembo a Lombardia famosa
Voi dimorate, colà dove regna
Cerere Italiana, e vi rinversa
Cortesemente l’or delle sue spiche:
5Si fatto favellar non è mentire,
Non è per certo; io contrastar non voglio;
È grave infamia fare oltraggio al vero.
Ma chi mi negherà, che le midolle
Del terren grasso, e da cotanti fiumi
10Bene irrigato, non ministri al Sole
Vapori grossi a condensar ben l’aria?
Or io potrei narrar, che di qui nacque
Il volgar biasmo alla città di Tebe.
Ma non è d’aizzar col nudo dito
15La collerica vespa: i Littorani,
Quali noi siamo, abitator di scogli,
Hanno candide Aurore, Esperi puri,
Ciel di zaffiri. Oh non mi s’empion l’aje,
Non sentonsi scoppiarvi i correggiati.
20Che monta? Or or della famiglia il padre
Grida per casa. Si risparmi il pane,
Val sangue il grano, indi ecco correr vece
Vele, vascelli, di Sicilia navi
Vengono in poppa; in quel momento vili
25Fansi le biade; il Granatin s’impicca,
E di giorno e di notte il forno coce,
E il popolo fa sue gozzoviglie.
Quale appunto oggidi miriamo il mondo,
Tale usci dalla man del mastro eterno,
30Ciascun paese avea di che pregiarsi
Di che lagnarsi infino allora: o bella
Schiera di Pindo! elle trovaro un oro,
Onde diedero nome agli anni antichi,
Con gran consiglio: in quei felici mesi
35Eran di biondo mel carche le selve,
E per gli aperti campi ivano i rivi,
Altri di puro latte, altri di vino
Isfavillante, allegrator de’ cori.
Le pecorelle si vedean sul tergo
40Tinger le lane, e colorirsi d’ostro