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del chiabrera | 185 |
Ma da quel giorno ch’ei sotterra è gito,
Io misero simiglio in questa riva
30Pur dalla mandra un agnellin smarrito,
Che sprezza il rezzo, e le bell’erbe schiva,
E sempre bela, il lupo alfin sen viene,
33E della mandra e della vita il priva.
Sì disse Lico, e le minute arene
Del bel torrente, e le montagne ombrose
36Rispondeano ululando alle sue pene.
Poscia movendo sulle piagge erbose
Un’altra volta Elpin dal petto lasso
39Sospinse in verso il ciel voci dogliose:
Se per Monte Morello unqua trapasso
Sicchè da quelle balze io miri Sesto,
42Subito lagrimando gli occhi abbasso;
Indi colmo d’angoscia i passi arresto,
Poscia dietro il furor, che a sè mi tira,
45Conturbo le fontane, e i fior calpesto.
Per tal via disfogata alquanto l’ira,
E contra la ria morte il mio disdegno,
48Per piangere il tuo fin tempro la lira.
Spezzola poi, che l’infelice legno
Ben risuona dolente a i casi rei,
51Ma nol sa però far, siccome è degno,
Nè seconda piangendo i dolor miei.
III
MENALCA, LOGISTO.
Menalca.
Su questa bella piaggia, ove tranquillo
Serpeggia il ruscelletto, ove fiorite
3Son le rive di menta e di serpillo,
Ove con torto piè sorge la vite
Sul bianco pioppo, ove la vista è lieta
6Per le belle vïole impallidite,
Canta, Logisto, e la mia mente acqueta,
Vento non freme, abbajator mastino,
9Che tu deggia cantare ecco non vieta.
Logisto.
Me lo vieta, Menalca, aspro destino,
Per cui trafitto duramente a torto
12Io sono al disperar quasi vicino:
Che mentre mi fingea maggior conforto,
E di maggior speranza era fornito,
15Venne Dameta, e disse: Ahi Tirsi è morto.
Caddemi il cor tosto ch’io l’ebbi udito:
Povera ed infelice mia capanna,
18Gran saetta dal ciel ben t’ha ferito.
Menalca.
A che l’anima tua tanto s’affanna
Per la morte d’un uom? non è dovuto:
21Che natura a morir tutti condanna.
Io bella gabbia ho di mia man tessuto
Nel freddo verno a trapassar le sere,
24Quando il velloso armento è ben pasciuto,
Come un forte castel, quadra a vedere,
E sorgono ciascuna in ogni canto
27Di liscia canna quattro torri altere:
Quivi un merlo è prigion, che negro il manto
Delle sue piume, e tutto il becco ha giallo,
30E toglie in aria ad ogni augello il vanto:
Ei scendeva ad un’onda di cristallo,
Ed io sotto l’erbetta un laccio tesi
33Al suo volare, e sì nol tesi in fallo.
Dal primo dì che l’infelice io presi,
Ad insegnargli faticai l’ingegno,
36Ed ha finora mille modi appresi:
S. fatto don del tuo valore in segno
Vo’ che môstri a’ bifolchi ed aratori,
39S’oggi de’ canti tuoi mi farai degno.
Logisto.
Menalca, lascia me co’ miei dolori:
Oggi le voci mie non son più quelle:
42Ma tu soverchio la mia cetra onori.
Orsù non molto indugeran le stelle,
Che omai l’ombre lunghissime si fanno,
45Andianne alla capanna, o pecorelle.
Tirsi, le greggie mie ben poseranno
Finchè del chiaro Sole il Mondo è privo;
48Ma per te non mi lascia unqua l’affanno:
Partiti, Fosca, da quel piè d’ulivo:
Guata se l’ostinata oggi m’ascolta,
51Ve’, mal per te, se costassuso arrivo.
Menalca, a rivederci un’altra volta.
IV
DAMONE
Sparita ancor non era la Dïana,
Che nell’orto n’entrai del buono Ameto,
3E mi lavai le man nella fontana;
E le più fresche foglie del laureto
E spico colsi, che fioriva intorno,
6E colsi sermolino, e colsi aneto.
Poi come al Mondo fe’ vedersi il giorno,
M’ha condotto ardentissimo desío
9Il tuo caro sepolcro a farne adorno.
Qui ti verso con l’erbe il pianto mio,
E qui ritornerò mesto sovente:
12Addio già Tirsi, ed ora polve, addio.
Ma qual fiero latrato oggi si sente?
Forse nel sangue dell’inferma greggia
15L’insidïoso Lupo inaspra il dente?
Ah Dio, che tanto male oggi non veggia!
Melampo, già tu sai, che in fedeltate
18Can di pastore alcun non ti pareggia:
O ben difese, o belle torme amate,
Di latte fecondissimo drappello,
21Solo sostegno alla mia stanca etate:
Per ombra di sì fresco valloncello,
Ove sì dolci corrono l’aurette,
24Ove sì chiaro mormora il ruscello,
Itene pecorelle, ite caprette,
Mandra forse non è, che in altro prato
27Aggia da pascolar sì molli erbette.
Venturoso terreno, aër beato,
In cui nebbia pestifera non siede,
30Cui non depreda peregrino armato.
Move il pastore alla cittate il piede,
Ivi cangia con ôr candida lana,
33Poscia sicuro a sua magion sen riede;
Ogni molestia va di qui lontana;
Si vuole il gran Signor, che Arno corregge,
36Dell’occhio suo non è la guardia vana.
Quinci su tante scorze oggi si legge
Scritto suo nome, ed in cotanti accenti
39Odon suo pregio ricordar le gregge.