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182 | poesie |
XΙ
IN MORTE DELL’ECCELLENTISSIMA
D. ZENOBIA DORIA.
Pianta, ch’eccelsa in sulla piaggia alpina
Spande le chiome onor della foresta,
Unqua non sorge più, se per tempesta,
4O per forza di fulmine ruina.
Ma bell’anima al ciel sale divina
Dopo l’orror della stagion funesta.
A che tanto lagnarsi? Atropo infesta
8Fa di corpo mortal vana rapina.
La nobil Donna a’ piè di Dio sicura
Sfavilla in alto, ove mirabil arte
11Farà d’altrui giovar con sua preghiera.
E già fedele al suo Signor procura,
Ed al Figlio gentil ramo di Marte,
14Tranquillo il sen dell’Anfitrite Ibera.
XII
AL SIG. GIACOMO CORSI.
Queste mie labbra, e questa lingua appena
Del tuo caro licor, Corsi, bagnai,
Che posto in fuga, e dato bando a’ guai
4La scura fronte mi tornò serena.
Corsemi un caldo poi di vena in vena
Qual ne’ freschi anni in gioventù provai,
Sicchè membrando d’un bel guardo i rai
8Fui quasi pronto all’amorosa pena.
E se di Pindo a’ gioghi affretto il corso,
Via più, che del Permesso, alma Verdea,
11Io mi rinfranco d’un tuo nobil sorso:
Gli spirti avviva, il cuor stanco ricrea:
A’ languidi pensier porgi soccorso,
14Ch’io non dispero al fin fronda Febea.
XIII
Quando nel cielo io rimirar solea
Nube a’ raggi del Sol vaga indorarsi,
E quando tra bei fior sull’erba sparsi
4Cristallo di ruscel girne vedea;
Quando sotto aura, che gentil correa,
Scorgeva il sen del mar tutto incresparsi,
E rotta sull’arena argento farsi
8L’onda, che di Zaffir dianzi splendea;
Allor fiso attendea, siccome attende
Uom, che per acquetarne alta vaghezza
11Meravigliose viste a guardar prende.
Or non così; che la mia lace avvezza
A tenebrosi panni, e fosche bende
14Omai non sa prezzar altra bellezza.
XIV
AL CONTE PROSPERO BONARELLI.
Questo gentil, che con leggiadri canti
Oscura in paragon cigni, e sirene
Oggi in teatri, e su dorate scene
4Condanna turchi a miserabil pianti.
Ma se co i duci a sommi eroi sembianti
Unqua dispiegherà vele tirrene,
Sforzerà gli empi a sostener catene,
8O ben lunge da lui girsen tremanti.
Così pronto su’ piè per doppia strada
Spronando sè col suo valore istesso
11Può far, che’l nostro re lieto sen vada;
Pregio ben raro ad un mortal concesso
Ornarsi con la penna e con la spada,
14E ne i campi di Marte, e sul Permesso.
XV
A FILLI.
Su questa riva, e quando il dì vien fuori,
E quando ei cade in mar, Filli superba,
Sfoga misero amante i suoi dolori,
4E per te la sua vita aspra ed acerba,
Spesso del pianto suo rinfresca i fiori,
E spesso dà fervidi baci all’erba,
E par ch’intento questa piaggia adori,
8Ove del tuo bel piede orma si serba.
Arso talora il cor d’alti desiri
Mette il fren della vita in abbandono,
11E l’anima lo lascia infra i sospiri.
Ascolta, o Filli, di mie voci il suono:
Gran pietate è dovuta a gran martiri,
14Non sdegnar; sono Amor, che ti ragiono.
XVI
AL MEDESIMO.
Poich’al desir, che rimirarti ognora,
Filli, mi costringea, tu stringi il freno,
Acciò senza tua vista il cor non mora
4La pietade d’amor non mi vien meno;
Ei mi mostra tua guancia in bella aurora,
E tua fronte serena in ciel sereno,
Ed in nubi gentil, che ’l Sole indora,
8Tua bionda chioma, ed in bei gigli il seno:
O pur de’ tuoi begli occhi il vago lume,
Ond’esce il giorno di mia vita oscura,
11Ne gli alti lumi ha di mostrar costume:
Ma crescendo conforto a mia ventura
In ogni antro, in ogni alpe, in ogni fiume,
14E dovunque riguardo, il mi figura.