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172 | poesie |
Piglia la sega e l’ascia,
E rompi ogni dimora,
20Strettojo mi lavora,
Strettojo onde si schiaccia
Ben forte la vinaccia:
Sciocco l’uom della villa,
Che disprezza una stilla
25Di quel degno licore,
Latte del nostro core.
XLIV
Si attiene a bevere.
Allor che in gioventute
D’una fresca virtute
Fioriano i miei ginocchi,
E mi splendea negli occhi
5Un grazïoso lume,
Era di mio costume
Spïare, ove più belle
Schiere di damigelle
Guidassero carole
10A bel suon di vïole:
Sciocchezza! ma sciocchezza,
Che insegna giovinezza.
Ora tempo è venuto,
Che sotto il crin canuto
15La vista mi s’invecchia,
Ed è sorda l’orecchia;
E tremo, e spesso caggio
S’io fo lungo viaggio.
Adunque il mio danzare
20È starsi al focolare
Carco di secco bosco,
E schermirsi dal fosco
E gelido febbrajo;
E se freme rovajo,
25Comandare a Siringa,
Che del migliore attinga,
Rosso, ma di rubino;
Dolce, ma cotognino.
XLV
AL SIG. JACOPO CICOGNINI
Invitalo con promessa di buoni vini.
O Cicognino, o caro
Della bionda Talia,
Qui ne vien, dove chiaro
Mormorando ruscello al mar s’invia:
5Vedrai su piagge erbose
Le Drïadi fiorite,
E su rive arenose
Le volubili ninfe d’Anfitrite;
E con note amorose
10Sfogare i suoi dolori
Zefiro vago, e sospirare a Clori.
Qui non di gemme aspersa
Opra di nobil mano,
Ma lucida, ma tersa
15Tazza t’appresto, ed è cristallo Ispano:
Di vin qual ambra puro,
Voglio io ch’ella trabocchi,
Che dolce, che maturo,
Tosto, che il versi ti s’avventa agli occhi;
20I grappoli suoi furo
Della vendemmia egregia,
Onde in Toscana Gimignan si pregia.
Forse gioconde e liete
Fian tue labbra non meno,
25Se spegnerai la sete
Col mosto peregrin che manda il Reno:
Ma se per avventura
Alle tue vene accese
Vuoi rinfrescar l’arsura
30Con uve figlie di terren francese,
Meco ber t’assicura
Manna, che ad ogni sorso
Bacia la lingua sì che imprime il morso.
Chiuso in grotta gelata,
35Per me s’attinge allora,
Che amata e desïata
Del gran Cosmo al natal riede l’Aurora,
Allor d’almi amaranti
Corona al crine intesso,
40E meco cerco i vanti,
Che deve a sì buon rege il mio Permesso:
Ben son dovuti i canti,
Se tra gli affanni impetra,
Per l’alta sua bontà, scampo mia cetra.
XLVI
AL SIG. BERNARDO CASTELLI.
Poichè al forte cavaliero,
Che sì fiero
Delle donne era nemico,
Fatto fu per l’oste ispano
5Chiaro e piano,
Quanto elle hanno il cor pudico.
Infra i risi, infra i diletti
Di quei detti
Apparv’uom d’edera adorno,
10Che sul monte di Permesso
Assai spesso
Usò far dolce soggiorno.
D’aureo vin coppa gemmata
Coronata
15Con la destra alta tenea,
E giocondo il petto, e ’l ciglio,
E vermiglio
Tutto il volto, alto dicea:
Scenda qui fiamma celeste,
20Che funeste
Qual troncar vorria la vite,
Alma vite, onde vien fuore
Il licore
Da bear le nostre vite.
25Sfortunato, sventurato,
Bestemmiato,
Ben nel mondo è quel terreno,
Nel cui sen non si produce
Questa luce,
30Questo néttare terreno.
Di qui vengono agli amanti
Risi e canti