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del chiabrera | 167 |
Su che oggi per Amor sia muto il Mondo,
E sol di Bacco ogni spelonca eccheggi.
VIII
Nè per allegro farmi, ov’io sospiro,
La bella studio vagheggiare Aurora;
Ne la vaga tra’ nembi Iri rimiro,
Ma qual vendemmia è di rubin più chiaro,
5E qual d’uva liquor via più s’indora,
In aurea tazza temperare imparo;
Ivi ad ognor pesco letizia, e come
Iri del Sole a’ raggi il seno innostra;
E come vibra d’oro Alba le chiome,
10Bacco al mio guardo dolcemente il mostra.
IX
Bel nappo cristallino in coppa d’oro
De’ tesori di Bacco oggi arricchito
Con gentile di rose odore infioro;
E pura neve di gelato lito
5Pur ivi inebbriandosi vien meno,
A più soave ber soave invito:
Di questo quel, che mi spirate in seno,
Occhi, vogl’io temprare aspro veneno.
X
Quest’onda, che di porpora si tinge,
Per se non calpestate lagrimaro
Uve, che sul Vesevo eran sanguigne,
Ed Autunno, a donarle un dolce amaro,
5Intorbidolla, e poscia in freddi chiostri
Gli spirti d’Aquilon la rischiararo:
Or io questi di Bacco amabili ostri
Porgo all’ostro gentil de’ labbri vostri,
XI
Non saetta d’Amor, che in me si scocchi,
Ma lunga sete nieghi il sonno agli occhi.
Lasso pur chiedo, e tutta notte indarno:
Nulla pietà d’un assetato? O lente,
5Lente di Damigella e mani, e piante;
Su mi si rechi vin de’ regni d’Arno:
Ma che siccome l’ôr brilli lucente,
Ma che nel bel cristal rida spumante,
Ma che il vaso colmando indi trabocchi,
10Ma che Ninfa di fonte oggi nol tocchi.
XII
Nè di quel che sì dolce Ischia matura
In questa coppa d’ôr, vo’ che tu spanda,
Nè di quel che sì bravo Iberia manda
Un botticello; O Gelopea pon cura:
5Ha dipinta di lauro una corona,
Ed ivi dentro leggerai Savona:
Di questo unqua il pensier non m’abbandona
Questo è il nettare mio, che ad ogni sorso
Soave sulla lingua imprime un morso.
XIII
Ha di rubini in sì vermiglio umore
Bacco le grazie d’ogni grazia chiuse,
Ed ogni grazia dell’Aonie Muse:
lo l’arse labbra, e l’anelante core,
5Or che il Sol fiammeggiando in alto poggia,
Vo’ rinfrescar di così nobil pioggia;
Poi vo’, che tuoni il Ciel di questa loggia,
Ove tanto vi vidi occhi lucenti,
Al rimbombar de’ miei focosi accenti.
XIV
Miro, che i lidi tutti or son nevosi,
Ardi del bosco, e qui le fiamme accresci;
Il selvoso Appennin fors’è lontano?
E tu fra’ mosti per vigor famosi
5Reca il fumoso di Sicilia, e mesci:
È fuoco desïato il buon Vulcano;
Ma pur è Bacco via più nobil foco,
Perchè seco ha lo scherzo, e seco il gioco.
XV
Quest’ambrosia del ciel, che in terra vino
Per uom s’appella, vien dal gran Vesevo,
Caro, e da riverirsi peregrino:
Col bicchier primo ogni tristezza obblio:
5E se a lui torno, ed il secondo io bevo,
Ratto, nè sa di che, ride il cor mio;
E dove il terzo non tralascio addietro,
Non ha, che io non le spezzi, arme il dolore:
Deh chi tre volte dunque il nobil vetro
10Men reca pieno, or che m’affligge Amore?
XVI
Di questa Greca vite il caldo orgoglio,
Bacco, non pavento io, s’ei mi minaccia;
E se m’annebbia il guardo, arde la faccia,
E rigonfia le vene, io non men doglio:
5Sol negli assalti suoi Bacco desio,
Ch’ei nel mio petto non rinversi obblío.
Bacco, di due begli occhi io pensar voglio.
XVII
In quel terso cristal profondo e largo
Trovo io per ogni mal Lete, e letargo:
Se dell’auro Trebbiano
I Toschi fiaschi, o Gelopea, son vôti,
5Versa del grande Ispano;
Ma fa che d’Appennin gelo vi noti:
E mentre il petto allagheronne, scuoti
Le piume o Filli, che fur occhi d’Argo.
XVIII
Tutto infocato alberga
Col gran Leon stellante
Apollo, e fiammeggiante
Riversa ardor dalle vellose terga.