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del chiabrera 163

     Lachesi fiera, ah non canuto ancora
     Con dura man lo ci rapite! e tanti
     Suoi pregi di virtù non lo salvaro,
     Nè lo salvaro delle Grazie i prieghi,
     Nè pure i prieghi dell’Aonie Muse,
     Che da lui mai non si partiro, e sempre
     Seco l’ebber su i gioghi di Citera:
     Ma tuttavolta non gli venne meno,
     O crude Parche, de’ diletti amici
     L’Amore ardente; anzi trovossi alcuno,
     Che sul lido solingo di Savona
     Erse per lui sepolcro; ed adornollo
     Di marine conchiglie e di coralli,
     Però che di diaspri e di alabastri
     Non avea copia, e colà sparse al vento
     Lunghi sospiri, e riversò sul seno
     Lagrime calde, e lo vedean dal mare
     Non senza doglia i passaggier delfini.
     O falce orribilissima di morte,
     Non mai per alcun tempo in questo mondo
     Troncherà stame di sì pura vita.

XVI

PER IL SIG. OTTAVIO RINUCCINI.

Se lungamente di tua cara vita
     S’avvolga il filo, o peregrin, cospargi
     Questo bel sasso d’odorati fiori:
     Egli del Rinuccin ricopre l’ossa;
     Del Rinuccio, che pregi crebbe all’Arno
     Dolce cantando, e sulla nobil scena
     A cigni Peregrin diè meraviglia
     Per modo tal, che si fe’ caro a’ regi;
     Ma finalmente pervenuto a morte
     Lagrimando Firenze alto il sospira.
     Tu, Peregrin, non attuffare in Lete
     La rimembranza di sì nobil nome,
     E segui fortunato il tuo sentiero.

XVII

PER IL SIG. GIULIO ROMANO.

Belle ninfe de’ prati, e belle ninfe
     De’ chiari fiumi, omai torbidi gli occhi,
     E della chioma scapigliate l’oro,
     Battete il petto; e tu non meno, amore,
     Paventa, che tua face omai si spenga,
     E che si spezzi l’arco. Or tu, che leggi
     Queste note intagliate in questa pietra
     Non inarcar le ciglia, o vïandante.
     Giulio, dalla cui bocca alta armonia
     Usciva a rallegrar la mente altrui
     Ha qui chiuse le labbra eternamente.
     Non è dunque ragion, che de i bei prati
     Le belle ninfe, e che le belle ninfe
     De’ lucidi ruscelli aggiano il seno
     Pien de’ pensier dolenti? E chi giammai
     Farà loro sentir le care istorie,
     Che dettano le Muse in Elicona?
     Chi l’aure loro serenar? Chi l’acque
     Più rischiarare infra le rive erbose
     Possanza avrà con ammirabil cetra?
     Ma tu, lieve figliuol di Citerea,
     Con qual voce adornar le tue vittorie
     Speri oggimai? Chi le bramate piaghe
     Delle dolci ed acerbe tue ferite
     Celebrerà? Chi l’invisibil rete,
     Onde l’umana libertade è serva,
     Farà cantando desïare a i cori?
     O dalle Parche disarmato amore
     Scendi su questo sasso, e qui dogliose
     Dà segno co’ sospir, come t’incresce
     Mirar posto in silenzio il nobil canto
     Di questo incomparabil tuo Ministro.

XVIII

PER IL SIG. CRISTOFORO BRONZINO.

Non perchè poche pietre peregrine
     Ornino questa tomba in cor ti vegna,
     Che il seppellito qui sia vil persona:
     Grande error certamente oggi ti prende,
     Grande ben molto, o passaggier, se credi,
     Che il nome consegnato a questi sassi
     Non se ne voli altier per l’Universo.
     È qui chiuso il Bronzin, quel dagli allori:
     Egli molto onorò l’arte d’Apelle,
     E co’ pennelli e coi color fe’ vere
     Le menzogne famose degli Argivi:
     Caro alle belle Muse, ond’ebbe in dono
     Castalia cetra, a cui sposando i versi
     Sembrò Sirena; ei non fu già diletto
     Allo strale d’Amor, che lo trafisse,
     E lo fece adorar vedovo sguardo,
     Ripien di froda; ma pentito al fine
     Diè bando al Mondo, e si rivolse al Cielo.
     Nacque sull’Arno; ivi fu caro a’ regi;
     Amò gli amici, e dagli amici amato
     Visse ora contristato, ora giocondo.
     Quaranta volte avea recato il sole
     Alle ciglia di lui l’auree bellezze
     Dell’odorato april, quando suo stame
     Atropo ferocissima recise.
     Tu, che leggesti, se versar non puoi
     Sul sasso Indico balsamo ed amomo,
     Almen per tua bontà, fa ch’egli senta
     Un amoroso vento di sospiri.

XIX

PER IL SIG. ROBERTO DATI.

Ancora entro i confin di fanciullezza
     Fui destinato a Marte; e presi in Malta
     Il bianco segno della nobil Croce;
     Nè per lo corso dell’età robusta
     Schifai risco o fatica: in sull’arene
     Fui veduto di Libia, e sulle sponde
     Dell’Unghero Danubio assai sovente
     Vidi sonar le sanguinose trombe.
     Così mi vissi, e non men dolgo, solo
     A me rassembra di ricever torto,
     Che spogliato dell’armi io giungo al fine
     In sulle piume del paterno albergo;
     Ma pur forse per me non avrà l’Arno
     Di che biasmarsi: or tu non porre indugio
     Al tuo cammino, e nella mente serba,
     Come l’umana vita è fragil cosa.