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162 | poesie |
X
PER MONSIG. FRANCESCO PANICAROLA.
Se fosse umana fama altro che fiato,
Che si dilegua in un momento, forse
Ti spargerebbe in petto arida invidia
Del buon Panicarola il sommo pregio,
Se però tu che leggi apprezzi l’arte
Del favellare. Oh che volubil fiume
Di ben scelte parole egli spandea
Dal cor profondo! oh che soave giogo
Imponevan parlando all’altrui mente!
Può dirlo Italia, cui sovente scosse
Col dolce fulminar delle sue note.
Ma che? sorpreso da silenzio eterno
Or giace muto in questi sassi. Adunque
Affermeremo, che non ha virtude
Contra l’acuta falce della Morte
L’alma virtù? non certamente; ascoso
Stassi il Panicarola oggi sotterra,
Ma risuona per tutto il suo gran nome;
Ogni orecchia l’ascolta, ed ogni sguardo
Il si vagheggia: il divenir di gelo,
L’incenerirsi è fin della natura:
Ma muore il neghittoso, a cui non sorge
Sì tardo il Sol, che non gli sia per tempo.
XI
PER IL SIGNOR GIROLAMO MERCURIALE.
Il fulmine, che spense la scïenza
Già d’Esculapio, perch’ei tolse a Stige
Ippolito figliuol del buon Teseo,
Al gran Mercurïal diede consiglio
Di non tornare in vita i già sepolti;
Ma disarmando d’ogni forza i morbi,
Ei solea conservar gli egri mortali.
Non lagrimò per lui tenera sposa
I suoi diletti; nè canuta madre
Mai recise le chiome in sulla tomba
De i carissimi figli, anzi il nocchiero
Tetro d’Averno, non avea cagione
Di tragittando maneggiare i remi
Per li lividi lidi d’Acheronte.
Or che da terra egli è volato al cielo,
Prendiamo guardia: la costui partita
Ha ritornate sue ragioni a Morte.
XII
PER IL SIGNOR LORENZO GIACOMINI.
Un, che di senno e di dottrina adorno
Splendesse alteramente; un, che d’argento
Molto abbondasse; un, che di nobil sangue
Avesse pregio, non saria felice
Stimato in terra? e pur di queste doti
Compitamente il Giacomin fornito
Non fu felice della rea conocchia
Atropo disdegnata in sull’estremo
Per lui stame filò da non bramarsi,
Dunque mortale peregrin del mondo
L’orgoglio ammorza: infin che miri il Sole
Dimori esposto a’ colpi di fortuna:
Ma se dentro Firenze a chieder prendi
Del Giacomin, non ti sarà celato,
Ch’ella s’ornò di sì sublime ingegno.
XIII
PER IL SIG. LORENZO FABBRI.
Nel paese di Lucca il bel Collodi
Mi fece, ivi lo stesso mi disfece,
Le genovesi mura mi albergaro
Lunga stagione, e rimirai del Sole
Quaranta volte ritornare al Tauro
Le belle rote; non mi fe’ d’argento
Natura in fasce copïoso erede,
Nè me ne calse: Io ben serbai nel petto
Anima pura, e degli amici amica.
Altro non debbo dir, perchè s’intagli
Questo sepolcro mio de’ miei costumi.
Avverrà forse, che per gentil modo
Cura ne prenda Gabbriel Chiabrera,
Cui vissi caro; e s’avverrà ch’ei sparga
La rimembranza mia d’oscuro obblío,
Nulla non monta: di Parnaso i canti,
Le lunghe istorie, di che van famosi
Tanto gli Scipioni e gli Alessandri,
Non recano conforto in questo regno
Oltramondano. È vanitade il mondo,
Son vanitate le sue glorie, ed empie
Rio lusinghier di vanitate altrui,
Se ben salda ragion non nel difende.
XIV
PER IL SIG. ROBERTO TITI.
Forse ragion di buon governo trasse
Il Titi fuor di Pindo, e condannollo
A questionar ne i menzogner palagi,
Ove con ôr si compra ogni sofisma;
Ma pure al fin la lealtà del core,
E dell’ingegno suo la candidezza
Lo scorse a corteggiar le belle Muse;
Quinci le dotte scuole di Bologna
Fur liete di sua voce, ed ammiraro
Il dolce suon delle Nestoree note.
Ivi vivea giocondo, e i suoi pensieri
Erano tutti rose. O mal sicura
Da dolorosi intoppi umana vita!
Ecco repente lo condusse all’Arno
Alto comandamento, e fece udirsi
Per poco spazio nella Tosca Alfea,
Che ombra sovra di morte il ricoperse.
Piangane Italia, che solea mirarlo
Campione incontra il barbaro furore
Ne i furor della guerra letterata.
XV
PER IL SIG. JACOPO CORSI.
Il Corsi morto è qui sepolto, a cui
Di gentilezza e di candor di core
Non fu mai paragon. Pessima Cloto,