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del chiabrera | 103 |
XXXVII
AL SIGNOR CARLO GUIDACCI
Non isconvenirsi le lagrime nella morte
de’ suoi cari.
Carlo, del ciel tra i luminosi giri
Sull’alto Olimpo, d’auree fiamme adorno,
Fa lunge da’ martir dolce soggiorno
Il caro Amico, che quaggiù sospiri.
5E mentre cinto di bei lampi ardenti
Non fallace pensiero il mi dipinge,
Biasmo quasi l’amor, che ti costringe
Per la sua morte rinnovar lamenti.
Qual pianse mai, che in riposato porto
10Agitato nocchier nave raccoglia?
Certo fora ragion sgombrar la doglia:
Alma ben nata ha nel morir conforto.
Ma il forte Achille, da gran duol sospinto,
Strida mandò fino alle stelle eccelse,
15E coll’altera destra il crine svelse
Sul freddo volto di Patroclo estinto.
Dal profondo oceán pronta sen venne
Tetide, sparsa di pietade il ciglio,
Che al fin temprasse i guai gli diè consiglio,
20E quei pur freschi i suoi dolor mantenne.
Dunque, se aver di pianto i lumi aspersi,
E nobil uso ne’ mortali affanni,
Non fia giammai, che tua pietà condanni,
Se sopra il Torrigian lagrime versi.
25Mal fortunato! che felice appieno
D’ogni più caro ben, che altri desia,
Morte lo ci sterpò quando fioria,
E sparve il suo gioir quasi baleno.
L’anima, vaga d’onorata fama,
30Quel suo di bene oprar fervido amore,
Chi mai, Guidacci, ci torrà dal core?
Non già Firenze, che ad ogni ora il chiama.
XXXVIII
AL SIGNOR JACOPO CORSI
Che fugaci sono i beni del mondo.
Corsi, già mille volte in mille scuole
L’umano orgoglio condannare intesi,
E in mille carte celebrate appresi,
Che il Mondo alletta, e che tradir poi suole:
5Che gli almi pregi, e di virtù gli onori
Han seco tal valor, che dura eterno;
Ma che il rio tempo, e l’ore ladre a scherno
Han la possanza degli scettri, e gli ori.
Ciò bene udito mille volte, e letto
10Poco fu meco a consigliar la mente,
Anzi, qual peregrin, velocemente
Appena giunto egli m’uscì dal petto.
Or io, che sorda tenni l’alma e dura
De’ saggi detti all’immortal consiglio,
15Uscii d’error come rivolsi il ciglio
Corsi, di Roma alle disperse mura.
Teco pien di vaghezza i marmi egregi
Giva cercando, e le colonne e gli archi,
Gli ampj teatri, a cui fregiar non parchi
20Fur di grand’oro imperatori e Regi.
Che a tal segno sorgesse umano ingegno
Da prima in rimirar meco ammirai;
Poscia la mente di stupor colmai
Scorgendo si bell’opre a si vil segno.
25L’Esquilie, il Celio e l’Aventin sublime,
L’alta Suburra, e le Carine istesse
Or son di zappator vendemmia e messe,
Che fra regali alberghi aratro imprime.
Nell’auree scene, ove del Cielo uditi
30Per bocca de’ mortali erano i canti,
Oggi s’odono ognor greggie mugghianti;
Che parlo io di mugghiar? S’odon grugniti.
O sette colli, or fatto esempio e specchio,
Cui dentro la mortal miseria miro,
35Per la vostra ruina io men sospiro,
Se tra dure fortune omai m’invecchio.
XXXIX
AL SIGNOR JACOPO DORIA
La Gloria venire dalla Virtù.
Doria, col corso de’ celesti giri
Va nostra vita, e su volubil ali
Il tempo rio ne’ miseri mortali
Cangia con la sembianza anco i desiri.
5Non mi si neghi: per non debil prova
Oso affermarlo: io de’ miei di fioriti
Passai l’Aprile in celebrar conviti,
Ove lieto Imeneo danze rinnova.
Forza d’alta beltà, ch’empie gli amanti
10Di caro duol, tiranneggiò mia cetra;
E dolci piaghe di mortal faretra,
Onde guerreggia Amor, furo miei canti.
Oggi che imbianco, e che di gelid’anni
Verno m’involve, altrove ergo i pensieri,
15Intento a vagheggiar gli spirti alteri,
Che vanno al ciel tra peregrini affanni
Per vario calle: altri terribil’asta
Vibra, Campion delle paterne mura;
E chi d’Astrea l’alme ragion procura
20Che giuste leggi, e d’oltraggiar contrasta:
Alcun le ricche gemme, onde l’Aurora
Adorna gli Indi, al poverel comparte,
E schifo d’ôr, con ammirabil’arte
Tra l’umane caligini s’indora.
25Jacopo, di costor gli alti costumi
In tua nobil magion non vengon meno,
Anzi, qual Orïon nel ciel sereno,
Splender veggiam tra scintillanti lumi;
Cotal di pregi, a meraviglia chiari,
30Quaggiù tuo sangue fa mirarsi adorno;
Ma sì fatti splendor non son tuo scorno:
Sì per l’esempio ad illustrarti impari.
Sferza te stesso, ed alle fide scorte
Affisa il guardo, e spingi innanzi il piede.
35Sul colmo delle stelle è nostra sede,
Ed inclita virtù n’apre le porte.
Chi sotto giogo vil l’anima abbassa,
Poco suoi sensi a contrastare ardito,
Calca il sentier di Lete e di Cocito,
40E sul sepolcro al fin nome non lassa.