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del chiabrera | 93 |
Tu pur non queti il fido cor, non pure
10Chini le ciglia da pensieri oppresso
Pompeo, ma vegghi, ed a novelle cure
Sferzi la mente al tuo Signore appresso.
Ed egli innalza a’ legni suoi l’antenne,
Perchè Ottomano a riverirlo impari,
15E spiega di grand’Aquila le penne,
Non dando il nome, ma la legge a’ mari.
Or che sarà dappoi? forse gli affanni
Han forza di tener gli animi lieti?
O per noi volgeran miseri gli anni,
20Se non volgono torbidi inquïeti?
Ah che in umile albergo ore serene
Prescrive a nostra vita Atropo ancora;
E più dolce a’ nostr’occhi Espero viene
Là ’ve s’attende in libertà l’Aurora.
25Però dal Tebro, e da quell’ostro altero
Lungi meno tra selve i giorni miei,
Godendo lieti con umíl pensiero
L’almo riposo, che colà perdei.
Che me medesmo a me medesmo io serbi,
30Mi consiglia dal ciel nobile Musa,
E Mario e Silla e Cesari superbi,
La cui grandezza in poca fossa è chiusa.
VIII
AL SIG. GIAMBATTISTA LAGOSTENA
Gli amori lascivi condurne a fini infelici.
Avvegna che girando il Sol ne chiami
Co’ rai di sua bellezza alma serena,
Non avvien tuttavia, che per nom s’ami,
O si miri beltà, salvo terrena.
5Chioma, che d’or, Lagostena, risplenda,
Benchè ne deggia grazie all’altrui mani,
E nero sguardo, che d’amore accenda,
E lo stellato ciel degli occhi umani.
Colà, siccome a sol rifugio e porto,
10Volgesi il Mondo, ivi si vien felice,
Ivi d’ogni dolor posto è conforto:
Ma non Antonio sfortunato il dice.
Ei già di squadre, e di grand’or possente,
D’aspri avversarj vincitore in vano
15Ripose il freno de’ pensieri ardente
Alla reina di Canopo in mano.
Pronto agli scherzi, alle vittorie tardo,
Disprezzato il Latin sangue gentile,
Per nudrir l’alma d’un Egizio sguardo,
20Recossi l’onde del gran Tebro a vile.
E quando per l’Egeo tromba di Marte
Offerse il Mondo alla più nobil spada,
La spada ei gitta, e fa girar le sarte,
Perchè femmina vil sola non vada.
25Qual poi de’ casi lagrimosi e rei
Non ebber contro al patrio Nilo in seno?
Lei che in battaglia rifiutò trofei,
Per servitù fuggir corse al veneno.
Ma prima Antonio dalla fiamma, ond’arse,
30Riscuote il cor, che di lussuria langue,
E perchè per amor l’altrui non sparse,
Largo divien del suo medesmo sangue.
E grida: o Roma, e del Romano Impero
Eterni eredi, e che d’eterna fama
35Me nudo spirto anco udirete altero;
Così sen va chi segue donna ed ama.
IX
AL SIGNOR RAFFAELLO ANSALDI
Contra l’Ipocrisia.
Ansaldi, omai di cento spoglie involto
Ciascuno oggi del cor cela i desiri,
E gli atti indarno, e le sembianze miri:
Con tanta froda ti si spone il volto.
5Dona per arte al poverel talora
Il più crudel degli usurieri avari,
E quasi casto sa stancar gli Altari,
Chi sol d’un letto le lussurie adora.
Sciocca empietate! e quale astuzia inganna
10Lui, che dall’alto ciel fulmina e tuona?
Che se a pentito peccator perdona,
Ostinate malizie al fin condanna.
Ora armi fiero Arcier d’aspra faretra
Parnaso, e crudo impiaghi i cor perversi:
15Io di giocondo mel spargendo i versi,
Pur, come soglio, addolcirò mia cetra.
Quando al Segno di Frisso omai ritorno
Fanno le rote del maggior pianeta,
Qual piaggia aprica, o di fredd’ombre lieta
20Ci raccorrà per rallegrarne un giorno?
Fiesole bella a’ gioghi suoi m’invita;
Quivi promette Clio nobili canti,
E venendo con lei Bacco di Chianti,
Daranne ambrosia della mortal vita.
25Intanto il vulgo, alle ricchezze intento,
Alzerà vele trascorrendo i mari;
E chi feroci vestirassi acciari,
E chi d’un guardo si farà contento.
X
AL SIGNOR GIAMBATTISTA FORZANO
Biasima l’Avarizia.
Vergine Clio, di belle cetre amica,
Scendi ratto quaggiù sull’auree penne,
E raccontando a noi favola antica,
Prendi a cantar, che già di Mida avvenne.
5A Mida un dì, ciò che tuo cor diletta,
Chiedilmi, Bacco nella Frigia disse:
Ed ei chiedeo, come avarizia dètta,
Che ciò ch’egli toccasse, oro venisse.
Oro verrà; di ciò ti son cortese,
10Bacco soggiunse; or sia tuo cor contento;
Ma poi l’ingordo a dura prova intese,
Che la mercè bramata era tormento.
Oro per lui fresco ruscello, ed oro
Per lui Pomona, e Cerere veniva:
15Tal che re d’incredibile tesoro
In fier digiun famelico languiva.
Quivi dolente al Ciel mandò preghiera,
Bramoso d’impetrar l’antico stato,
Tardi veggendo, che nell’or non era
20Virtù, per cui si renda altri beato.
Tal Mida fu dell’avarizia il mostro,
Di cui leggiam la brama al fin pentita,
Forzan, ma nuovi Midi ha il secol nostro,
Che via men del tesor pregian la vita.