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167-196 AD AFRODITE 95

su Anchise allor versò la Diva un soave sopore
dolce, e di nuovo cinse le fulgide vesti alle membra.
E poi che tutta fu vestita la Dea fra le Dee,
alla capanna stette dinanzi; e giungeva la testa
al solido architrave: bellezza immortal dalle guance
fulgea: bella com’è Citerèa dalla vaga ghirlanda.
E lo destò dal sonno, gli volse cosí la parola:
«Sorgi, di Dàrdano figlio: ché giaci nel sonno profondo?
Déstati, e vedi se proprio ti sembra che a quella fanciulla
simile io sia, che or ora t’apparve dinanzi allo sguardo».
     Disse. Ed Anchise l’udí, balzò dal sopore all’istante.
E appena il collo e gli occhi fulgenti mirò d’Afrodite,
terror l’invase, e altrove le luci rivolse sgomente.
E poscia, il suo mantello distese, a nascondersi il volto,
e a lei volse una prece, parlò queste alate parole:
«A mala pena, o Dea, ti vider questi occhi, e conobbi
sùbito ch'eri una Dea; ma il vero tu a me non dicesti.
Or le ginocchia ti stringo, per Giove l’egíoco ti prego,
non far ch’io d’ora innanzi trascorra una misera vita,
abbi di me pietà: ché florida vita non gode
l’uomo che con le Dee che vivono eterne si giacque».
     E a lui cosí rispose la figlia di Giove, Afrodite:
     «Anchise, o tu preclaro fra quanti sono uomini al mondo,
fa’ cuor, l’animo tuo non ceda a soverchio sgomento.
Da me temer non devi che mai ti derivi sciagura,
né da verun dei Beati: ché tu sei diletto ai Celesti.
E un caro figlio avrai, che signore sarà dei Troiani;
e nasceranno, senza mai termine, figli da figli.
Enea si chiamerà, perché grave doglia m’invase,
allor ch'io, Diva, scesi nel letto d’un uomo mortale.