Una mortale sono, mia madre fu donna mortale:
Otrèo, se mai ne udisti parlare, è l’illustre mio padre,
che sovra tutta impera la Frigia dall’alte muraglie.
E so la lingua vostra al par della nostra: ché in casa
una nutrice di Troia mi crebbe da piccola bimba,
e m’educò, poco a poco: ché m’ebbe cosí da mia madre:
ecco perché sí bene conosco la vostra favella.
E adesso mi rapí l’Argicída dall’aurea verga,
mentre danzavo in onore d’Artèmide amica ai clamori,
dagli aurei dardi. Molte danzavano Ninfe e vezzose
vergini, qui: faceva corona una turba infinita.
E quindi mi rapí l’Argicída dall’aurea verga,
e sopra molti campi mi trasse di genti mortali,
su terre molte, senza né campi né rocche, ove fiere
voraci hanno soltanto dimora, in ombrosi covili;
né mi sembrò ch’io mai toccassi la terra ferace.
E disse ch’io giacere dovevo nel letto d’Anchise,
sposa legittima, e a te generare bellissimi figli.
Ora, poi ch’ebbe detto, parlato cosí, nuovamente
partí, fra gl’Immortali tornò l’Argicída gagliardo;
ed io qui venni a te, ché possente destino mi spinse.
Ed ora io ti scongiuro, per Giove e pei tuoi genitori
nobili — ch’essere figlio non puoi tu di gente dappoco —
guidami al padre tuo, che mi scorga, alla saggia tua madre,
ed ai fratelli tuoi, che nati son teco d’un sangue.
Nuora sarò per essi prudente, e non trista; e un araldo,
quanto puoi prima, ai Frigi dai pronti puledri spedisci,
che rechi al padre mio l’annunzio, alla madre dolente.
Ed essi oro a dovizia, di certo, con vesti tessute
mi manderanno: i doni che avrai, saran fulgidi e molti.