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O Musa, narra a me d’Afrodite, signora di Cipro,
vaga dell’oro, le gesta. Fra i Numi la brama soave
d’amore suscitò, domò dei mortali le stirpi,
e degli uccelli che in aria si librano, e tutte le fiere,
quante la Terra, quante ne nutre l’Ocèano: a tutti
di Citerèa dalla vaga corona son l’opere grate.
     Solo di tre non potè né ingannar né convincere il cuore.
Non della figlia di Giove, d’Atena dagli occhi azzurrini.
L’opere a lei non son grate di Cipride amica dell’oro,
bensí grate le sono di Marte le imprese, le guerre,
le zuffe, le battaglie, le fulgide gesta compiute.
Essa per prima istruì gli artefici industri mortali
a costruire i carri, i cocchi intarsiati di bronzo,
essa nell’opere egregie fe’ sperte le vergini molli,
ché nella casa entrò di ciascuna e ispirarne la mente.
     Neppur la Dea ch’à d’oro le frecce, che gode ai clangori,
Artemide, irreti nell’amor la ridente Afrodite:
ché a lei piacciono gli archi, le cacce di fiere pei monti,
piaccion le cetre, le danze, le grida che giungono al cielo,
piacciono le città dei giusti e gli ombriferi boschi.