E allor Febo ad Ermète cosí la parola rivolse:
«Io temo, o scaltro figlio di Maia che l’anime guidi,
che tu m’abbia a rubare la cétera e l’arco ricurvo:
poiché tal privilegio t’ha Giove concesso, gli scambi
effettuare sopra la terra che tutti nutrica.
Perciò tu devi il giuro solenne dei Numi prestarmi,
sia con un cenno del capo, sia l’acqua di Stige invocando,
che sempre ciò farai che a me sia diletto e gradito».
E allor, di Maia il figlio fe’ cenno del capo, e promise
che mai non ruberebbe quanto era possesso d’Apollo,
né mai presso il suo tempio fulgente verrebbe. Ed Apollo
chinò la testa, in segno d’affetto e d’assenso, e promise
che niuno a lui piú caro, fra quanti hanno vita immortale,
sarebbe mai, né Dio, né uomo figliuolo di Giove.
«E te medïatore farò tra i Celesti e i mortali,
fido al mio cuore, e colmo d’onori; e una verga anche avrai,
bellissima, che vita beata e ricchezze procacci,
indistruttibile, d’oro, a tre foglie; e sarà tuo presidio.
Essa su tutte le vie dei discorsi e dell’opere buone
ti condurrà, quante io ne so dalla voce di Giove.
L’arte profetica poi, che tu chiedi, o figliuol del Croníde,
lecito non è già che a te la comunichi, o a quale
sia dei Celesti: a Giove soltanto appartiene: la fede
io con un cenno del capo prestai, diedi giuro solenne
che niuno, tranne me, dei Numi che vivono eterni
conoscerebbe mai di Giove il profondo consiglio:
né tu chiedermi dunque, fratello dall’aurea verga,
ch’io le sentenze sveli di Giove che tutto contempla.
E danno io recherò a quest’uomo, vantaggio a quest’altro,
frequentemente il corso volgendo fra gli uomini grami.