ché si compiace di chi la fa mollemente vibrare,
Ma dai contatti rozzi rifugge; ma chi, non esperto
da prima, a precipizio rivolger le vuole domande,
cianciuglia allora frasi a vanvera e prive di senso.
Ma tu quello che brami, apprendere puoi da te solo.
Perciò, figlio di Giove bellissimo, a te la consegno.
E invece, noi, sul monte, sul piano che nutre i cavalli,
custodiremo i paschi che nutrono, Apollo, i giovenchi.
Partoriranno quindi, commiste coi tauri, le vacche
figli in gran copia, sia maschi, sia femmine; e tu non dovrai
troppo adirarti, o Febo, sebbene sí scaltra hai la mente».
Detto cosí, glie la porse; Apolline Febo la prese,
e, in cambio, consegnò la lucida sferza ad Ermète,
che le giovenche guidasse. Ben lieto il figliuolo di Maia
la ricevette; ed Apollo, Signore che lungi saetta,
fulgido figlio di Lato, la cetra pigliò con la manca,
e la percosse, corda per corda, col plettro. E soave
fu della cetra il suono, del Nume era amabile il canto.
Volsero poi le greggi, perché pascolassero, al prato
divino; ed essi, i figli di Giove bellissimo, entrambi
tornarono all’Olimpo coperto di neve, a gran passi,
diletto della cetra prendendo. E fu lieto il Croníde.
e strinse l’uno all’altro d’affetto: il figliuolo di Maia
sempre il figliuol di Latona dilesse, ed ancor lo dilige.
E die’, retaggio al Nume che lungi saetta, la cetra,
la cui dolcezza aveva provata; e ognor quegli la tocca.
Ed egli a un’arte poi diversa lo studio rivolse:
delle siringhe trovò la voce che vibra lontano.