prese coraggio, il figlio di Maia e di Giove, e a sinistra
stette d’Apolline Febo. Correan con acuti preludi
sopra le corde le dita, l’amabile voce seguiva.
E celebrava i Numi che vivono eterni, e la terra
negra, e qual fu d’ognuno l’origine, e quale il destino.
E Mnemosíne prima cantava fra tutti i Celesti,
la madre delle Muse, che il figlio di Maia protegge;
e tutti quanti, secondo l’età, celebrava, e narrava
come ciascuno nacque, di Giove il bellissimo figlio,
tutti con garbo esaltava, reggendo sul braccio la cetra.
E preso allora fu da brama invincibile Febo,
e il volo a lui rivolse cosí dell’alate parole:
«Ladro di bovi, maestro di frodi, compagno ai banchetti,
che mai non posi, val bene cinquanta giovenchi, il tuo canto!
Credo che intenderci senza contesa noi sempre potremo.
Ma questo dimmi adesso, di Maia versatile figlio,
è dono di natura, per te, compier tanti prodigi,
oppure alcun dei Numi beati o degli uomini alcuno
questo mirabile dono ti fece, del canto divino?
È meraviglia, questa novissima cosa che ascolto,
quale non mai conobbe, di certo, verun dei mortali,
né dei Celesti alcuno, quanti hanno dimora in Olimpo,
tranne tu sol, frodatore, di Giove e di Maia figliuolo.
Quale arte, quale studio, qual Musa degli aspri cordogli
consolatrice è questa? Ché certo tre doti possiede:
evocatrice è di gioia, d’amore, di dolce sopore.
Di certo sono anch’io compagno alle Muse d’Olimpo,
a cui l’inno è gradito del canto soave e la danza,
e la fiorente voce, dei flauti l’amabile squillo:
però mai nessun canto mi scese nel cuore profondo