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76 INNI OMERICI 395-416

a luce trasse i bovi dall’alta cervice. E in disparte
stando il figliuol di Latona, scoperte le pelli dei bovi
sopra la rupe scoscesa, si volse al chiarissimo Ermète:
«Come hai potuto, orditore d’inganni, scoiare due bovi,
tu che sei nato or ora, tu ancor da vagiti? Anch'io temo
quanta la forza tua sarà nel futuro: bisogna
che troppo tu non cresca, Cillenio di Maia figliuolo».
Cosí disse; e le mani gli strinse di vincoli saldi.


Lacuna.

Probabilmente si narrava come Ermete seppe
spezzare i suoi lacci, e i varii pezzi, caduti al
suolo, attecchirono e avvincigliarono le gambe
delle giovenche.


E sotto i piedi, i rametti di vètrice, ov’eran caduti
fecero presa; e a caso volgendo qua e là le vermene,
ai pie’ delle silvestri giovenche si avvinsero stretti,
per l’artificio d’Ermète, del dèmone scaltro. Ed Apollo
vide, meravigliò. Volse gli occhi il gagliardo Argicída
di sotterfugio al suolo, battendo le pàlpebre fitte,
cercando ove celarsi. Ma poi, facilmente placare
seppe il figliuol di Latona che lungi saetta, sebbene
tanto tremendo, a sua posta. La lira che a manca reggeva,
tentò col plettro, corda per corda. E le corde percosse
alto levarono strepito. E Apolline Febo sorrise,
e s'allegrò, ché in cuore gli scese l’amabile suono
dello strumento divino, lo invase dolcissima brama,
mentre ascoltava il suono. E, citareggiando soave,