E con bravate grandi m’impose che tutto io svelassi,
e la minaccia mi fe’ di scagliarmi nel Tartaro immane,
perché di gioventù glorïosa ei si trova nel fiore,
io sono al mondo, e anch’egli lo sa, solamente da ieri,
e non ho l’aria d’un ladro di bovi, d’un uomo gagliardo.
Credi, per quanto è vero che tu ti dichiari mio padre,
ch’io le giovenche a casa condotte non ho, per fortuna!,
che non varcai la soglia, che il vero è cosí come io dico.
Gran reverenza io nutro pel Sole, pei Dèmoni tutti,
e t’amo, ed anche Apollo rispetto. Tu poi, lo sai bene
ch’io non ho colpe; e dare ne vo’ giuramento solenne:
per questi dei Beati vestiboli sacri lo giuro.
Ed a costui farò scontare il saccheggio che ha fatto,
sebbene sia piú forte: tu i giovani assistere devi».
Disse cosí l’Argicída Cillenio; e con gli occhi ammiccava
e con le braccia nascoste; ché via non gittava le fasce.
E Giove rise tanto, vedendo quel bambolo birbo,
come sapeva bene mentire, con quanta scaltrezza.
E allora comandò ch’entrambi d’amore e d’accordo
cercassero; ed Ermète, signore che l’anime guida,
guidasse lui, mostrasse, ma senza piú inganni, il paese
dove nascoste aveva le vacche dall’alta cervice.
E fe’ cenno il Croníde, né tardo fu Ermète a obbedire,
ché lo convinse il volere di Giove dell’ègida sire.
Ed affrettandosi entrambi, di Giove i due fulgidi figli,
giunsero a Pilo, coperta di sabbia, sui rivi d’Alfeo,
giunsero ai campi, ed alla spelonca dall’alto soffitto,
dove la notte avanti compiuta avea l’opera Ermète.
E quivi, dunque, Ermète, entrato nell’antro roccioso,