«Bimbo che giaci in culla, rispondimi presto ove sono
le vacche; o la contesa tra noi sarà poco garbata;
giacché ti scaglierò fra la nebbia del Tàrtaro orrenda,
nel buio donde mai non si torna; né padre né madre
potranno a luce piú ricondurti: sotterra, in malora,
sovra perdute genti provare dovrai le tue frodi».
E a lui rispose Ermète con queste sagaci parole:
«Perché tanto crudele mi parli, figliuol di Latona?
Perché vieni a cercare qui proprio, i silvestri giovenchi?
Io non li ho visti, non so, non ne ho udito parlar da nessuno,
dar non ti posso indizio, buscar non mi posso la mancia.
Ho l’aria, io, d’un ladro di bovi, d’un uomo gagliardo?
Non fo questo mestiere, mi premono ben altre cose:
fare i miei sonni, il latte succhiar di mia madre, mi preme,
le fasce avere avvolte sugli omeri, e il tepido bagno.
Vedi che non si risappia l’origin di questa contesa:
gran meraviglia davvero sarebbe fra i Numi del cielo,
che un bimbo appena nato potesse varcare la soglia,
e sgraffignare i bovi silvestri: tu chiacchieri a vuoto.
Ieri son nato! I miei piedi son teneri, e dura è la terra.
Ma su la testa del babbo, se vuoi, ti fo’ giuro solenne,
io, te ne dò sicurtá, che non sono colpevole, e visto
alcun altro non ho, che rubasse le vostre giovenche,
quali che siano; ed ora soltanto ne sento parlare».
Cosí dicea; ma gli occhi mandavano lampi inquieti,
guizzava il sopracciglio, sfuggiva qua e là la pupilla;
e infine alto stride’, quando vana riuscí la menzogna.
E Apollo a lui, ridendo di cuore, cosí rispondeva:
«O sciocco, o tristo arnese, maestro d’imbrogli, assai spesso,
io credo, entrar dovrai nelle case abitate, di notte,