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70 INNI OMERICI 218-246

orme lasciare cosí mostruose coi piedi veloci:
strane a guardarle di qui: di lí, se le guardi, più strane!».
E si lanciò, cosí detto, Apòlline figlio di Giove,
e di Cillène al monte pervenne, vestito di selve,
entro l’anfratto alpestre roccioso, tutto ombra, ove Maia,
l’ambrosia Ninfa, avea dato a luce il figliuolo di Giove.
E s’effondeva per l’alpe divina soave fragranza,
e l’erba molte greggi pascevan dall’agili gambe.
E qui varcò, veloce movendo, la soglia di pietra,
e scese, il Dio che lungi saetta, nell’ombre dell’antro.

     E come, dunque, il figlio di Giove e di Maia ebbe scorto,
l’Iddio, che lunge scaglia le freccie, adirato pei bovi,
entro le fasce fragranti s’immerse: lo stesso vediamo
quando il carbone che brucia di cenere un mucchio nasconde.
In poco spazio Ermète cosí, quando Apòlline vide,
tutto si strinse, e i piedi contenne e le mani e la testa,
come se, or or fatto il bagno, cercasse di prendere sonno;
e invece, era ben desto: stringea sotto il braccio la lira.
Ma ben conobbe il Dio di Latona figliuolo e di Giove
l’alpestre Ninfa bella col suo prediletto figliuolo,
piccolo pargolo, e già maestro d’astuti raggiri.
E gli occhi della grotta per gli angoli tutti movendo,
tre ripostigli aprí, ché rinvenne la fulgida chiave;
ma colmi erano tutti di nèttare e amabile ambrosia;
e d’oro anche e d’argento quivi era serbata gran copia,
e della Ninfa molte purpuree e candide vesti,
come ne serbano tutte le case dei Numi beati.
Ora, poi ch’ebbe tutti cercati gli anfratti dell’antro,
queste parole il figlio di Lato rivolse ad Ermète: