e dalla testa ai pie’, tutto strusse alla vampa del fuoco.
Or, poi che il Dèmone tutto compie’, come avea disegnato,
i sandali gittò nei vortici fondi d’Alfeo,
spense i carboni, e lungi ne sperse la cenere negra
tutta la notte; e belli Selene i suoi raggi diffuse.
E del Cillène poi di nuovo tornava alla vetta,
mentre spuntava il giorno. Né alcuno pel lungo viaggio
dei Numi l’incontrò, né degli uomini nati a morire,
né gli abbaiarono i cani. E il figlio benigno di Giove,
di sbieco penetrò nello speco, traverso la toppa,
come la nebbia, come la brezza che spira d’Autunno.
Della spelonca entrò diritto negli àditi pingui,
leggeri i pie’ movendo, ché non se n’udiva scalpore.
Quivi alla culla Ermète famoso veloce si volse,
e agli omeri si cinse le fasce; e d’un pargolo al pari
che in braccio alla nutrice sgambetta, che ancora non parla,
giacea, nella sinistra reggendo l’amabile cetra.
Ma, sebben Dio, lo scoprí. Diva anch’essa, la madre, e gli disse:
«Furbone, come mai, donde mai, svergognato perfetto,
giungi a quest’ora di notte? Ma ora ne sono ben certa,
che tu presto dovrai, tutto avvinto di dure ritorte,
stretto dal pugno del figlio di Lato, varcare la soglia,
oppure per le valli vagare, facendo il ladrone.
Va’, sciagurato, in malora! Tuo padre ha con te generato
per i mortali tutti, pei Numi immortali, un gran guaio.»
E a lei rispose Ermète con queste parole sagaci:
«Madre, perché mi vuoi sbigottir, come fossi un fanciullo
che ancor non parla, e poca scaltrezza racchiude nel seno,
tutto paura, e teme tuttor le materne minacce?