ammainare le vele, nessuno piú n’ebbe l’ardire;
ma, con le vele fissate, com’erano al giunger del mostro,
cosí correan su l’onde: spingeva la nave da tergo
Noto rapace. E prima passarono lungo il Malèa,
lungo la terra lacona, lungo Elo, castello sul mare,
e a Tènaro, paese del Sole che allegra i mortali,
dove del Sole sovrano le greggi dai morbidi velli
errando vanno sempre, pascendo sul suolo giocondo.
E qui volevano essi fermare la nave, e, discesi,
figgere infine gli occhi nel grande prodigio, e vedere
se il mostro resterà sul ponte del concavo legno,
oppur se balzerà nel pescoso estuare del ponto.
Ma piú non obbediva la solida nave al timone,
e, costeggiando il Peloponneso, seguía la sua rotta:
ché facilmente Apollo, Signore che lungi saetta,
la dirigeva col soffio dei venti. E, seguendo il cammino,
passa di là d’Arène, di là dall’amabile Argífe,
da Trio, scalo d’Alfeo, da Epe, città ben murata,
e poi, lunghessa Cruni, lunghessa Calcide e Dime.
Or, poi che tutte quante le coste del Peloponneso
ebbe trascorse, e il golfo di Crisa infinito fu visto,
che separata tiene di Pèlope l’isola pingue,
Zefiro immane qui, per volere di Giove, dall’ètra
impetuoso, rapace, possente, spirò, perché il legno
velocemente corresse sui bàratri salsi del mare.
A corso indi ritroso, di qui navigarono verso
l’Aurora e il Sole; e Apollo guidava, il figliuolo di Giove.
E al porto, ecco, di Crisa, l’aprica, di vigne feconda,
giunsero: quivi approdò su la sabbia la celere nave.