e mosse irato verso Telfúsa, e fu súbito giunto,
e, stando presso a lei, così la parola le volse:
«Più non potrai, Telfúsa, poiché tu volesti ingannarmi,
volgere l’onde, Signora, per questa fiorente contrada:
adesso mia sarà, non piú tua solamente, la gloria».
Disse; e sospinse, il Nume che lungi saetta, sui rivi
rupestri un masso grande, che tutte celò le fluenti;
e un’ara costruí fra gli alberi fitti del bosco,
del fonte all’acque belle vicino vicino. E Telfusio
chiamano tutti qui, quando preci gli volgono, il Nume,
perché quivi le belle fluenti ei turbò di Telfúsa.
E poscia, il Dio che lungi saetta, si diede a pensare
quali mortali condurre potrebbe ministri al suo culto,
che in Pito aspra di rocce per lui celebrassero i riti.
Vide, mentr’ei pensava cosí, nel purpureo ponto
correre un legno veloce: molti uomini c’erano e bravi.
Cretesi eran, di Cnosso, città di Minosse. Del Sire
celebran questi i riti, d’Apollo dall’aurea spada
annunciano i responsi, di Febo, checché dall’alloro
oracolando ei pronunci, dai cupi recessi parnasi.
Sopra la nave negra, pei loro commerci, pei lucri,
alla sabbiosa Pilo movevano, agli uomini Pili.
Ed ecco, Apollo Febo sul pelago mosse a incontrarli:
assunse d’un delfino le forme, e del rapido legno
sul ponte si lanciò, vi restò, mostro orribile, immane.
Nessuno lo conobbe, nessun ch’era il Nume si accorse.
E il mostro iva qua e là, sbalzando, squassando la nave.
E sbigottiti, senza fiatare, sul negro naviglio
stavano i marinari buttati; e allentare le funi,