Pagina:Omero minore.djvu/46

164-192 AD APOLLO PIZIO 43

Poi, quando il giro fu compiuto dei mesi e dei giorni,
e l’anno roteò, sopraggiunsero nuove stagioni,
essa alla luce die’ Tifone, terribile, orrendo
flagello dei mortali, non simile a questi, né ai Numi.
Era, la Diva dagli occhi rotondi, lo prese; e lo accolse
la Dragonessa da lei: la peste nutriva una peste.
Ché molti mali recava degli uomini all’inclite stirpi:
chi s’imbattesse in quella, giunto era al suo giorno fatale,
prima che il Dio che lungi saetta scagliasse le frecce
sovr’essa. E cadde qui, straziata d’orribili doglie,
divincolandosi al suolo, soffiando un anelito greve.
Surse un clamore infinito di gioia; ed il mostro pel bosco
mosse, girò qua, là, spirò l’anima sanguinolenta,
morí. Levò su lui Apolline Febo tal vanto:
«Imputridisci or qui, sovressa la terra ferace:
piú viva non sarai, non sarai piú funesto flagello
degli uomini, cui nutre coi ricchi suoi frutti la terra,
quando ad offrire qui verranno perfette ecatombi.
Né potrà far che tu schivi la morte dogliosa Tifone,
né la Chimera sua figlia, dal nome esecrato. La negra
Terra ed il fulgido Sole faran che tu quivi marcisca».
     Cosí disse. E del mostro sugli occhi la tenebra corse.
E dove cadde, quivi la forza divina del sole
imputridir lo fece: onde or detto Pito è quel luogo,
e Pizio detto fu dell’arco il signore; ché quivi
putrido rese il mostro la forza rovente del sole.


     Ed ecco, Febo Apollo, pensando, conobbe l’inganno
che teso aveva a lui la fonte dai limpidi flutti;