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AD APOLLO PIZIO |
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quanti han dimora nel suolo del Peloponneso ferace,
quanti nel continente, nell’isole cinte dal mare,
che canteranno qui responsi. Veridici a tutti
oracoli io darò, profetando dal ricco mio tempio».
Le fondamenta gittò, com’ebbe ciò detto, il Signore,
per tutta la grandezza, quadrate lunghissime; e sopra
posero il santuario di marmo Trofonio e Agamède,
figli d’Ergino, entrambi diletti ai Celesti immortali;
e costruirono turbe d’intorno infiniti edifici
di levigate pietre, ché ognor li cantassero i vati.
E presso scorre il fonte dall’acque bellissime, dove
il Dio figlio di Giove dall’arco d’argento, trafisse
la Dragonessa grande, gigante selvaggio prodigio,
che tanti danni recava degli uomini all’agili greggi,
e tanti a loro stessi: ché era un cruento flagello.
A questa Era, la Diva dall’aureo trono, una volta,
Tifone, orrendo mostro crudele affidò, per nutrirlo.
Essa l’aveva concetto, per l’ira nutrita nel cuore
contro il Cronide, quand’esso die’ vita ad Atèna famosa,
nel suo cérebro. Ed Era, la Dea, veneranda, adirata,
queste parole disse nel pieno consesso dei Numi:
«Voi tutti, o Numi, e tutte voi, Dive, ora datemi ascolto,
come rispetto mi perde per primo il figliuolo di Crono,
adunator di nembi. Sua sposa mi fe’ pei miei pregi;
ed ora, senza me, generò l’occhicerula Atena,
che insigne va fra tutte le Dive beate del cielo.
Invece, il frutto delle mie viscere, Efèsto, mio figlio,
infermo è più che ogni altro dei Superi, ha torte le gambe.
Io l’afferrai per un piede, lo scaraventai giù nel mare;