Dire una cosa però ti voglio, e tu intendila bene:
delle cavalle veloci qui sempre lo strepito noia
a te darà, dei muli che bevono ai sacri miei rivi.
Vedere qui vorrà ciascuno degli uomini i carri
bene costrutti, lo strepito udir dei veloci corsieri,
vedere il tempio grande, le molte ricchezze che aduna.
Se vuoi credere a me — ma tu sei migliore e piú saggio
di me, Sire dell’arco: grandissima è poi la tua forza —
sotto gli anfratti Parnàsi edifica, in Crisa, il tuo tempio.
Quivi, né ressa di carri fulgenti sarà, né tumulto
di rapidi cavalli, d’intorno al tuo solido tempio:
qui recheranno in silenzio le offerte al Signor dei peàni
l’inclite dei mortali tribù: nel tuo cuore godendo,
i sacrifici da quanti dimoran lì presso tu avrai».
Disse Telfusa, e il cuore convinse del Nume. E la gloria
rimase a lei così del nome, non fu dell’Arciere.
Quindi piú oltre movesti, Signore che lunge saetti,
venisti alla città dei Flegi selvaggi, che cura
non han di Giove alcuna, sebbene pur vivono in terra,
in un ridente vallone, vicino allo stagno cefisio.
Con impeto veloce di qui ti lanciasti alle vette,
e pervenisti, sotto le nevi del monte Parnaso,
a Crisa, che, battuta da Zefiro, sembra uno stinco.
Sopra le incombe una roccia, la cinge una valle profonda,
tutta aspra; e quivi Apollo, Signore dell’arco, decise
d’edificare il suo tempio gradito; e fûr tali i suoi detti:
«Dunque, io disegno qui costruire un bellissimo tempio,
dare i responsi qui per gli uomini; e gli uomini sempre
aduneranno qui per me le perfette ecatombi,