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Anche il secondo inno incomincia con una presentazione ex-abrupto del Nume esaltato.

Ma è un ex-abrupto piuttosto musicale che plastico. Non troviamo qui particolari visivi, come nell’inno ad Apollo Delio, bensí acustici. Anche qui appare súbito il Nume; ma, piú ancora che il Nume, vediamo la sua cetra: prima del suo nome, troviamo il participio φορμίζων: citareggiando. E la parola φόρμιγξ torna súbito nel secondo verso e nel terzo, con volutissimo effetto (ho cercato di renderlo ponendo tre volte il vocabolo cetra in fine di verso).

Da Pito, ove il Dio ci appare appena per un istante, passiamo, con rapido balzo, in Olimpo. E, anche qui, troviamo un Olimpo musicale, che fa pensare, sebbene a distanza infinita, al divino preludio della prima Pitica di Pindaro. Cantano le Muse; danzano le Càriti, l’Ore, Ebe ed Armonia; Artèmide accorda con le altre la propria voce; Ares ed Ermete prendono parte anch’essi a quei diporti musicali. E fra tutte queste voci minori, irrompe di nuovo, come un a solo su la compagine orchestrale, la cetra d’Apollo (ἐγκιθαρίζει).

Col solito atteggiamento, canonico e retorico, il poeta chiede