sede pei templi suoi: fu colmo di gioia il suo cuore.
E tu, Sire dall’arco d’argento, che lungi saetti,
Apollo, ora su l’alpe deserta di Cinto movevi,
ed altra volta andavi fra i templi, fra gli uomini errando.
E molti templi a te son sacri, e alberate selvette,
e le vedette care ti sono, ed i vertici sommi
dei monti eccelsi, e i fiumi che l’acque declinano al mare.
Ma in Delo, o Febo, piú che altrove ti giubila il cuore.
S’adunan qui gli Iòni per te, ch’anno usberghi di bronzo,
essi coi loro figli, le loro consorti pudiche;
e con la danza, coi canti s’allegran, col pugile gioco,
te ricordando, allorché solennizzano, o Febo, le gare.
Chi negli Iòni, quand’essi raccolti son qui, s’imbattesse,
li crederebbe immuni mai sempre da morte e vecchiezza,
tal grazia in tutti quanti vedendo; e godrebbe di cuore,
gli uomini contemplando, le donne dagli abiti belli,
l’agili navi, le molte dovizie. Oltre a ciò, le fanciulle
di Delo, le ministre d’Apollo. Questo è gran prodigio:
poiché, quando hanno Febo per primo esaltato nell’inno,
e poi Latona, e poi la vergine vaga di frecce,
gli eroi prischi nel canto ricordano ancor, l’eroine,
per esaltarli, e il cuore molciscono a tutte le turbe.
E poi sanno imitare le voci degli uomini tutti,
e d’ogni canto la foggia: udendole, ognun penserebbe
d’udir sé stesso: tanto la voce han pieghevole al canto.
Móstrati dunque a noi, con Artèmide, o Apollo, propizio.
E tutte voi, salvete, fanciulle: di me ricordarvi
dovrete un giorno, quando talun dei terrestri mortali,