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     No, non oblio, mi rammento d’Apollo che lungi saetta,
di cui tremano i Numi, quand’ei nella reggia d’Olimpo
entra, e si levano in piedi, com’ei presso a loro s’avanza,
tutti dai seggi loro, quand’ei l’arco lucido scòte.
Sol presso a Giove, dei folgori sire, Latona rimane,
che la farètra gli serra, dell’arco le corde gli allenta
di propria mano, l’arco dagli òmeri saldi gli toglie,
e presso alla colonna di Giove suo padre lo appende
a un aureo chiovo; e poi, sul trono, a sedere, lo guida.
E lo saluta il padre, che l’ama; e in un calice d’oro
nèttare mesce a lui. Allor, gli altri Dèmoni tutti
seggono anch’essi. E gode Latona, la Dea veneranda,
che un figlio generò valente, maestro dell’arco.
Salve, beata Latona, che figli sí fulgidi, Apollo,
e, di saette vaga, la vergine Artèmide, a luce
desti, poggiata all’alta montagna ed al clivo del Cinto,
presso ad un fonte, lungo le linfe d’Inòpo fluenti.

Come a te l’inno dirò, se tu, Nume, sei già tutto un inno?
Tramiti s’aprono ovunque di cantici, a dir la tua gloria,