e nell’abisso me l’ha Gonfiagote condotto, e l’ha spento.
Su via, l’armi impugnate, le membra coi lucidi arnesi
variopinti di guerra s’adornino; e a campo si muova».
A prender l’armi, tutti convinse con queste parole;
e Marte stesso li armò, che cura si dà delle guerre.
E pria, verdi baccelli di fave, che avevano roso,
tutta la notte a veglia restando, spaccarono a mezzo,
ne congegnaron gambiere, ne fecero schermo agli stinchi.
Poi, con sagacia molta, spellarono un gatto, ed a pezzi
fattone il cuoio, e di giunchi copertolo, fecero usberghi:
d’una lucerna il fondo rotondo serviva da scudo:
lunghi lunghi aghi, bronzea fatica di Marte, fur lancie:
cinsero per elmetto un guscio di noce alle tempie.
Stavano in campo armati cosí, dunque, i topi. E i ranocchi,
come li videro, fuori balzaron dall’acqua a raccolta,
e tennero sul lido consiglio di guerra: e mentre essi
cercavan dell’assalto la causa e del fiero tumulto,
giunse un araldo ad essi, che in pugno reggeva lo scettro,
Bazzicapentoli, figlio di Scavaformaggi animoso,
che della guerra l’annunzio funesto recava; e si disse:
«Ranocchi, i topi a voi mi mandan con tale minaccia:
che voi d’armi cingiate le membra allo scontro di guerra:
però ch’àn visto Rubamolliche nell’onde, a cui morte
il sire vostro die’, Gonfiagote. Su, dunque, alla guerra,
quanti alla guerra, fra voi ranocchi, si vantan più prodi».
Diede cosí l’annunzio. L’eletta concione agli orecchi
giunse, e turbò dei ranocchi superbi le menti; e rampogna