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122 | INNI OMERICI | 446-470 |
Seguono cinque versi mutilati, nei quali Rea ripete a Demètra le promesse di Giove.
Su’ persuaditi, figlia, né troppo covare lo sdegno
contro il figliuolo di Crono signore dei nuvoli, e il frutto
súbito fa’ germogliare che in vita mantiene i mortali».
Disse cosí; né restía fu la Dea dalle vaghe ghirlande.
Súbito i frutti fe’ germogliar da le zolle feraci,
e tutta si coprí la terra di fiori e di fronde.
Ed ai sovrani datori di leggi, pria ch’ella partisse,
a Díocle, di cavalli maestro, a Trittòlemo, a Eumòlpo,
al condottiere di genti gagliardo Celèo, fu maestra
dei venerandi riti, a tutti insegnò celebrare
le pure orge: concesso non è trasgredirle o spiarle,
né farne ciancia: la voce rattenga l’ossequio a le Dive.
Tra gli uomini mortali, beato chi giunge a vederle;
ma chi restò profano, chi parte non v’ebbe, non gode
uguale fato, dopo la morte, nell’umido buio.
Ora, poi ch’ebbe tutto disposto, la Diva, all’Olimpo
novellamente salí, fra il consesso degli altri Immortali.
E qui, vicino a Giove signore del folgore, stanno
beate ed onorate. Felice su tutti, il terrestre
che queste Dee di cuore diligon: ché mandano tosto
alla sua casa opulenta, ché segga sul suo focolare,
Pluto, che agli uomini dà mortali le grandi ricchezze.
Su, Dee che proteggete le genti d’Elèusi fragrante,
e Paro, tutta cinta dall’acque, ed Antróna rocciosa,