sí che tornare potesse fra i Dèmoni, e Dèmetra alfine
lei rivedere potesse, del cuore calmare lo sdegno.
Né tardo Ermète fu: d’Olimpo lasciate le sedi,
subitamente balzò della terra nei bàratri fondi.
E dentro la sua casa trovò dei defunti il Signore,
sopra un lettuccio seduto: vicina gli stava la sposa,
contro sua voglia, perché la struggeva desio della madre,
e nella mente andava pensando i soprusi dei Numi.
Presso gli stette, cosí gli disse il possente Argicída:
«Ade ceruleo crine, che sei dei defunti signore,
a me Giove ordinò che la bella Persèfone a luce
io conducessi fra loro, dall’Èrebo, sí che la madre
lei rivedere potesse, calmasse il rancore e la furia
funesta ai Numi tutti: ché medita un fiero disegno:
sotto la terra i germi nasconde; e perdute le offerte
vanno dei Numi: fiero corruccio la preme; e in Olimpo
tornare più non vuole: seduta in un tempio fragrante,
soletta se ne sta, d’Elèusi la rocca protegge».
Cosí diceva. E al Sire dei morti Edonèo, corse un riso
sotto le ciglia; e senza contrasto al volere di Giove,
sùbito volse alla saggia Persèfone queste parole:
«Persèfone, ora, presso la madre dal cerulo peplo
ritorna, e in seno rendi piú placidi l’animo e il cuore,
né di soverchio piú crucciarti dell’altre fanciulle:
ché, certo, indegno sposo per te non sono io fra i Celesti,
perché fratello io sono di Giove Croníde; e tu meco
signora qui sarai di tutto che s’agita e vive.
E quanti privilegi fra i Numi son massimi, avrai;
e pena eterna avrà chi torto ti faccia, e non t’offra.