pel figlio suo temendo, con l’alma acciecata dal cruccio;
e queste pronunciò, singhiozzando, volanti parole:
«Demofoónte, figlio, nel fuoco ti tiene nascosto
la stranïera; e a me cordogli, a me spasimi appresta».
Disse cosí Metaníra piangendo. La Dea fra le Dive,
Dèmetra, amica dei serti, l’udiva, e, sdegnata nel cuore,
il pargolo, che tardi nato era, che ad essi nutriva,
via da le fiamme tolse, e giù dalle mani immortali
lasciò cadere al suolo: tant’ira pervase il suo petto.
E queste a Metaníra vezzosa parole rivolse:
«Uomini ciechi, senza sagacia, che nulla sapete
mai preveder del fato che avanza, sia buono, sia tristo!
D’un mal senza rimedio t’è causa la tua stolidezza.
L’onda implacabile sappia di Stige, ch’è il giuro dei Numi,
sappia che immune sempre da morte e vecchiaia tuo figlio
io reso avrei, concessi gli avrei privilegi immortali.
Ora, non più potrà sfuggire le Parche di morte,
sebbene onore avrà perenne, perché l’ho raccolto
sopra le mie ginocchia, fra queste mie braccia ha dormito.
Dèmetra io sono, colma d’onori, che agli uomini arreca
sommo vantaggio, più che ogni altro dei Numi, e diletto.
Ed ora, il popol tutto mi deve innalzare un gran tempio,
e presso un’ara, lungo la fonte Callícora, sotto
l’eccelse mura della città, sopra il clivo che sporge.
Ammaestrare nei riti li voglio io medesima; e voi
con sacrifizi puri potrete placare il mio cuore».
Detto cosí, tramutò la Diva figura e statura,
gittò via la vecchiaia, spirò tutta quanta bellezza:
una soave fragranza s’effuse dai pepli odorati,
uno splendore lungi raggiò, dalle membra immortali,