tennero Metaníra: s’alzò dal suo trono, alla Diva
invito fece ch’ella sedesse; e non volle Demètra
che le stagioni arreca, che i fulgidi beni comparte,
sedere sopra il trono fulgente; e restava in silenzio,
gli occhi figgendo al suolo; finché la scaltrissima Giambe
le porse un saldo seggio coperto d’un candido vello.
Quivi seduta, il velo distese dinanzi al suo volto,
e sopra il seggio, a lungo, rimase nel cruccio, e taceva.
Né di gradire alcuno mostrò con parola o con atto:
senza sorridere, senza bevanda gustare né cibo,
sedeva; e la struggeva desio della vaga sua figlia:
sinché la scaltra Giambe, coi tanti suoi lazzi e le beffe,
non ebbe astretta al riso la Dea venerabile e pura,
ed al sorriso, non ebbe tornato il suo cuore, al sereno:
e sempre Giambe, poi, per l’umore faceto, le piacque.
E Metaníra, una coppa di vino più dolce del miele
rempiuta, a lei la porse. La Diva, però, la respinse:
bere purpureo vino, diceva, non l’era concesso;
ma disse che farina con acqua e fragrante puleggio
mescesse, e a lei l’offrisse da bere. La sacra bevanda
quella apprestò, l’offrí, cosí come volle la Diva.
Deo veneranda l’accolse, fu questo il principio del rito.
E Metaníra elegante cosí cominciava a parlare:
«Salute, o donna! Tu non sei nata da gente dappoco,
anzi, da illustri parenti: tal grazia negli occhi ti fulge,
tale decoro, qual’è dei sovrani datori di leggi.
Ma sopportare, per cruccio che dia, ciò che mandano i Numi,
debbono gli uomini a forza: ché il giogo sul collo li aggrava.
Ora, quello ch’è mio, sarà tuo, poiché tu sei qui giunta;
e tu, questo bambino che tardi mi diedero i Numi.