a ricercare la figlia; ma niuno degli uomini volle
dirle la verità, nessuno dei Numi immortali,
nessuno giunse a lei degli uccelli veridico nunzio.
Per nove dí, sovressa la terra, la Dea veneranda
corse, in entrambe le mani stringendo una fiaccola ardente;
né, pel suo cruccio, mai di nèttare dolce o d’ambrosia
cibo toccava, mai non tuffò nei lavacri le membra.
Ma quando Aurora apparve fulgente, nel decimo giorno,
Ècate incontro a lei si mosse, e stringeva una face,
e a lei recò messaggio, le volse cosí la parola:
«Delle stagioni o Dea, che fulgidi beni comparti,
Demetra, quale mai dei Superi, qual dei mortali
Persèfone rapí, nel cruccio sommerse il tuo cuore?
Io la sua voce udii: però non han visto questi occhi
il rapitore chi fu: tutto vero è ciò ch’io t’ho narrato».
Ècate disse cosí. Né a lei rispondeva parola
la figlia chiomabella di Rea; ma veloce con essa
corse, in entrambe le mani stringendo una fiaccola ardente.
Giunsero al Sole sovrano, che gli uomini vigila e i Numi,
stettero innanzi ai suoi corridori; e gli chiese la Diva:
«O Nume, abbi a me Dea riguardo, se mai con parole,
con atti mai, giocondo t’ho l’animo reso ed il cuore.
La figlia del mio grembo, la bella, il mio dolce germoglio,
alta ne udii la voce suonare per l’ètra infecondo,
come se forza a lei facessero; e pur non la vidi.
Ma tu, che sopra tutta la terra e sul pelago tutto,
dal sommo ètra divino, dei raggi lo sguardo rivolgi,
dimmi la verità, se la sai, la diletta mia figlia
quale dei Numi, quale degli uomini nati a morire
l'ha, mal suo grado, ghermita, mentre ero lontana, e s’invola».