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L’inno a Demetra era già conosciuto da Pausania; ma non appariva nei nove manoscritti degli inni che si conoscevano fino al 1777. In quest’anno, il tedesco Matthaei, professore all’Università di Mosca, lo trovò, non già nella Biblioteca del Santo Sinodo, come si legge di solito, bensí in una stalla, fra polli e cinghiali domestici, e lo portò a Leyda.
E, appena venuto a luce, dove’, s’intende, esperimentare il lavorio della critica. Il quale, questa volta, fu cosí spietato, che perfino il Baumeister ci perse le staffe. «Il neonato appena venuto alla luce — dice egli, nel suo solito e simpatico latino — con acutissimo impegno presero a dilacerare col ferro e col fuoco, strepitando che era un parto mostruoso, che bisognava tagliarne via col coltello le membra sovrabbondanti, senza punto badare se, per avventura, insieme con le membra strappassero anche la vita».
Se lo dice un filologo tedesco, ci possiamo credere. E allora, leggiamo l’inno come se tutte quelle critiche non esistessero, e cerchiamo di formarci un criterio nostro proprio.
L’inno incomincia, anche qui, con un ex-abrupto plastico, col ratto di Proserpina, che costituisce il primo episodio (1-32).