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CANTO XIII 17

410sin ch’io non giunga a Sparta, città delle femmine belle,
per richiamare, o Ulisse, Telemaco, il figlio tuo caro,
che quelle belle contrade, cercò, cercò Menelao,
per chiedere notizia di te, se tu ancora vivessi».
     E le rispose cosí l’accorto pensiero d’Ulisse:
415«Detto perché non glie l’hai, tu che pure di tutto hai contezza?
Forse perché travagli patir debba anch’egli, ed errare
sopra lo sterile mare, mentre altri gli vorano i beni?»
     E gli rispose cosí la Diva dagli occhi azzurrini:
«Troppa cura di lui non deve affannare il tuo cuore:
420io stesso l’ho inviato, perché buona fama acquistasse,
andando lí: né cruccio veruno lo turba; e tranquillo
sta nella casa d’Atreo, soggiorna fra beni e dovizie.
Vero è che in una nave gli tendono i Proci un agguato,
che lo vorrebbero morto pria ch’egli sia giunto alla patria;
425ma non sarà, credo io: dovrà pria la terra coprire
talun di quei superbi che tutti ti vorano i beni».
     Mentre cosí diceva, la Dea lo sfiorò d’una verga.
Di grinze tutte quante coperse le floride membra,
gli fe’ sparir dal capo le chiome sue bionde; e su tutta
430la sua persona stese la pelle d’un vecchio cadente,
foschi gli rese gli occhi, che prima fulgevano belli.
Ed una tunica indosso gli pose, ed un misero manto,
roba stracciata, lorda, di sudicio fumo annerita,
ed una logora pelle su quelli, di rapido cervo.
435Poscia un bastone in mano gli diede, e una rozza bisaccia,
tutta a brindelli; e al collo pendea da una logora cinghia.
Presi cosí gli accordi, si mosser divisi; e la Dea
a Lacedèmone andò, per cercare il figliuolo d’Ulisse.