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CANTO XXII 187

110e i due famigli anch’essi si chiuser ne l’armi fulgenti,
e stavan presso Ulisse lo scaltro, dall’agile mente.
Questi poi, sino a che gli rimasero frecce a difesa,
ad uno ad uno i Proci toglieva di mira, e colpiva
qua e là per la stanza: cadevano quelli un su l’altro.
115Ma quando poi le frecce finite gli furono, allora
l’arco vicino a un pilastro poggiò della solida porta
alla parete lucente, che al suol non cadesse; e lo scudo
ad armacollo si mise, di cuoio quadruplice, e un elmo
solido, sopra la testa gagliarda, con l’alto cimiero
120di crini — paurosa dall’alto ondeggiava la cresta — ,
ed impugnò due lance dal cuspide aguzzo di bronzo.
     V’era una porta d’uscita nell’alta parete; e sboccava
per un passaggio in un ronco, sbarrata di saldi battenti:
ma detto aveva Ulisse che il fido porcaro vi stesse
125sempre vicino a guardia: ché questa era l’unica uscita.
Ed Agelao favellò, rivolse ai compagni i suoi detti:
«Perché quell’uscio alcuno di noi non infila, o compagni,
per dir tutto alla gente, che presto si chiami al soccorso?
Quest’uomo avrebbe allora lanciate l’estreme sue frecce!».
     130E gli rispose cosí Melanzio, pastore di capre:
«Stirpe divina, Agelao, possibil non è! La gran porta
troppo è vicina, l’imbocco del varco difficile è troppo,
ed un sol uomo, se prode, di lí può respingere tutti.
Ma fra un istante qui spero recarvi, a vestirvene, l’armi,
135che nella stanza sono disopra: ché qui, non altrove,
l’armi deporre solevano Ulisse e il suo fulgido figlio».
     Detto cosí, Melanzio, pastore di capre, saliva
pei corridoi della casa d’Ulisse a la stanza disopra:
dodici scudi dai rostri spiccava, e altrettante zagaglie.