Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/181

178 ODISSEA

380l’uscio ei vi strinse, poi di nuovo tornò nella sala,
e sovra lo sgabello dond’erasi or ora levato,
sede’, guardando Ulisse. Già questi iva l’arco provando,
guardandolo per tutto, qua e là volgendol, se a caso,
mentre egli era lontano, corroso l’avessero i tarli.
385E nel vederlo, cosí dicea questi e quegli al vicino:
«Intenditore d’archi perito deve esser costui.
Davvero, o ch’egli n’ha lasciato uno simile a casa,
oppur se lo vorrà costrurre; qua e là per le mani
lo va girando, questo pitocco maestro di guai».
     390E soggiungeva un altro di quei tracotanti signori:
«Cosí della Fortuna potesse raccogliere i doni,
com’egli ora potrà riuscire a tender quest’arco!»
     Cosí diceano i Proci. Ma Ulisse frattanto, lo scaltro,
poi ch’ebbe punto a punto scrutato, provato il grande arco,
395come allorquando un uomo di cetera esperto o di canto
agevolmente tende sul bischero nuovo una corda,
cosí l’arco suo grande Ulisse piegò senza sforzo.
Poi, con la destra prese la corda, ne fece la prova;
e quella un suono acuto mandò, che una rondine parve.
400Grave l’ambascia fu dei Proci, sbiancarono in viso
tutti; e Giove mandò con lo scoppio d’un tuono, il presagio.
Ma lieto il cuore fu d’Ulisse tenace divino,
che a lui tale presagio mandasse il figliuolo di Crono.
E prese un dardo acuto che fuor del turcasso giaceva
405sopra la mensa — dentro rinchiusi ancora erano gli altri
onde gli Achivi presto doveano saggiare la punta.
Col cúbito alto, quindi, tirando la corda e la cocca,
dallo sgabello dove sedeva scagliò la saetta
dritto mirando; e niuna fallí de le scuri: sfiorando