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CANTO XXI 169

110non indugiate piú: si tenti la prova, e si vegga.
Anzi, io medesimo voglio tentare la gara dell’arco.
E se lo tenderò, se saprò traversare le scuri,
via non andrà da questa mia casa la nobile madre
per seguire altri, me lasciando qui solo e doglioso,
115mentre già posso in gara contender con l’armi del padre».
     Disse. E, balzato in piedi, dagli omeri il rosso mantello
depose giú, sfilò dal collo l’acuta sua spada,
l’asce dispose quindi. Scavò per tutte una fossa
grande, traverso la sala, tracciandola a filo di squadra,
120e v’assodò la terra d’attorno. E stupirono tutti
con che garbo le pose, né mai visto aveva quel gioco.
Poscia alla soglia andò, vi stette, fe’ prova dell’arco.
S’adoperò tre volte per fletterlo come avea brama:
tre volte si fiaccò, sebbene tuttora sperasse
125tendere il nervo, e spinger la freccia fuor fuori dall’asce.
E ben la quarta volta curvato lo avrebbe di forza;
ma la sua voglia Ulisse frenò con un cenno del capo.
E allora disse ai Proci Telemaco mente divina:
«Ahimè tristo! O sarò mai sempre un imbelle, un dappoco,
130o troppo giovine sono tuttora, ed ho fiacche le mani.
Orsú, via, dunque, voi che me superate di forza,
date di piglio all’arco, che compier si possa la gara».
     Cosí disse. E lontano da sé l’arco a terra depose,
poggiandolo ai battenti ben solidi, ben levigati:
135il dardo acuto quindi chinò vicino a l’anello,
e nuovamente sede’ sul trono dond’era pria sorto.
E allora Antinoo, figlio d’Eupíto, cosí prese a dire:
«Su, dalla destra, compagni, da dove a libar si comincia,
l’un dopo l’altro, sorgete, tentate la prova dell’arco».