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CANTO XX 151

50di guerrieri mortali bramosi di abbatterti in zuffa,
tu prederesti ad essi le pecore pingui e i giovenchi.
Dunque, abbandónati al sonno: ché troppo molesto è vegliare
tutta la notte insonne: né a lungo piú devi patire».
     Cosí disse. Ed a lui sopore versò su le ciglia,
55ed essa ritornò, la Dea, fra le Dive d’Olimpo.
Quando il sonno che scioglie le membra e le pene del cuore
ebbe ghermito l’eroe, si destò la sollecita sposa;
e su le molli coltri levata a sedere, piangeva.
E quando il cuore suo fu poi sazïato di pianto,
60prima ad Artèmide volse la donna divina una prece:
«Figlia di Giove, Artèmide, Dea veneranda, oh!, se infine
scagliandomi una freccia nel seno tu pur m’uccidessi
súbito adesso, oppure, ghermitami qualche procella
mi trasportasse via, pei tramiti oscuri dell’Ade,
65o mi gittasse alle foci d’Oceano che lungi fluisce,
come le figlie ghermí di Pàndaro un dì la procella!
Poi che dal cielo i Numi spenti ebbero ad esse i parenti,
orfane erano in casa rimaste; e la diva Afrodite
di cacio e dolce miele nutriale, di vino soave,
70Era concesse a loro d’ecceller su tutte le donne,
di forme e d’intelletto, le rese Artèmide snelle,
le fece Atena esperte nel compiere egregi lavori.
Ma quando si recò la diva Afrodite in Olimpo,
per le fanciulle a chieder la sorte di floride nozze
75a Giove, che s’allieta del folgore, e tutta conosce
degli uomini mortali la prospera sorte e la rea,
alto per l’aer le rapaci procelle rapir le fanciulle,
ed all’Erinni odïose le dieder, che fossero ancelle.
Deh!, mi facesser cosí sparire i Signori d’Olimpo!