Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/134


CANTO XIX 131

170Ma, pur cosí, ti voglio rispondere a ciò che mi chiedi.
Levasi in mezzo al mare purpureo la terra di Creta,
bella, ferace, tutta recinta dai flutti. Novanta
quivi son le città, numerar niun saprebbe le genti.
Parlan ciascuna una lingua diversa, commista. Qui Achivi,
175quivi i Cretesi puri, magnanimi, quivi i Cidóni,
e, in tre tribú divisi, coi Dori i divini Pelasgi.
Cnosso, la gran città qui levasi, dove Minosse
per nove anni regnò, che solea favellare con Giove,
padre di Deucalione mio padre, magnanimo cuore.
180Deucalione a luce me diede, ed il prence Idomène.
Ma verso Ilio costui salpò coi figliuoli d’Atreo,
sopra le curve navi. Etòne è il mio fulgido nome,
ch’io piú giovane nacqui: maggiore Idomène, e piú forte.
E a Cnosso Ulisse io vidi, gli offersi ospitali presenti,
185poi che gittato a Creta l’aveva la furia del vento,
respinto dal Malèa, quand’ei veleggiava per Troia.
Ei ne l’Amniso approdò, dov’è la spelonca d’Ilizia,
in rive malsicure, che appena schivò le procelle.
Súbito chiese, appena salito in città, d’Idomène,
190ch’ospite suo diceva, egli era diletto e pregiato;
ma era già spuntata la decima o undecima aurora
da che partito egli era per Ilio, sui legni ricurvi.
Sotto il mio tetto cosí lo condussi, ed ospizio gli offersi
con ogni amore: ché in casa penuria non v’era di beni;
195e agli altri suoi compagni, che seco vernano, farina
diedi, raccolta fra i miei cittadini, con fulgido vino,
e bovi da immolare, che paga facesser la fame.
Dodici giorni qui rimaser gli Achivi divini:
ché li teneva la Bora gagliarda, che un demone tristo