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130 ODISSEA

140grande grande, di fine lavoro; e cosí dissi ai Proci:
«Giovani miei pretendenti, poiché morto è Ulisse divino,
piacciavi attender le nozze, per fretta che abbiate, sin ch’io
finisca questa tela, ché persa non vada la trama.
Essere questa dovrà di Laerte la funebre veste,
145quando lo colga il fato funesto di morte dogliosa;
ché alcuna delle Achee non debba di poi rampognarmi
che senza un manto giaccia chi tante ricchezze ebbe in vita».
     Cosí dissi; e convinti rimaser quei cuori superbi.
Ora io tessendo andavo cosí la gran tela di giorno,
150e la struggevo, notte per notte, al chiaror delle faci.
Celar potei tre anni l’inganno, e convincer gli Achivi;
ma quando al quarto, poi, cominciò la vicenda dei mesi,
grazie alle ancelle, cagne sfacciate, e nemiche di zelo,
vennero, e fui sorpresa, rimproveri m’ebbi da tutti.
155Cosí, contro mia voglia, la tela compire dovei.
Ed ora piú non posso schivare le nozze, né trovo
altra malizia. E molto mi spingono i miei genitori
ch’io vada sposa; e il figlio s’affligge dei beni distrutti,
ché già capisce, è uomo, di già, da badare alla casa,
160quanto altri mai; ché Giove fa sí ch’egli prospero viva.
Ma pur dimmi chi sei, qual’è la tua gente; ché certo
né favolosa quercia né sasso t’han dato alla luce».
     E le rispose Ulisse, l’eroe dalla mente sagace:
«O veneranda sposa d’Ulisse, figliuol di Laerte,
165tu non desisti ancora dal chieder qual’è la mia stirpe?
Dunque, te lo dirò; sebbene piú gravi dolori
cosí mi dài di quelli ch’or soffro, che sono compagni
d’un uom che tanto tempo lontan dalla patria rimase
quanto io, per tante errando città di mortali, e soffrendo.