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CANTO XVIII 119

quanto salario ti basti, servire lontano pei campi,
350fare fascine di pruni, piantare grandi alberi? Il cibo
somministrare lí ti farei tutti i giorni, le vesti
io ti darei da coprirti, le scarpe da mettere ai piedi.
Ma l’arte del briccone tu hai solo appresa; e il lavoro
poco ti piacerà: vorrai mendicar fra la gente,
355e pittimare, sinché rimpinzi l’ingordo tuo ventre».
     E di rimando, Ulisse rispose con queste parole:
«Se fosse gara fra noi, chi piú a lungo resista al travaglio,
di primavera, quando, Eurímaco, i giorni son lunghi,
a falciar l’erba; e in pugno m’avessi una falce ricurva,
360ed una simile tu, provando chi fa piú lavoro,
sino al tramonto digiuni restando; e ci fosse tanta erba:
o se ci fossero buoi da spingere, quelli piú forti,
grandi, lucenti di pelo, ben d’erba pasciuti, di possa
simili, simili d’anni, che grande la forza ne fosse;
365e quattro iugeri, e sotto l’aratro s’aprisser le zolle,
tu mi potresti vedere se dritto so schiudere il solco.
Che se la guerra oggi stesso piacesse eccitare al Croníde,
d’onde che fosse, e uno scudo m’avessi con due giavellotti,
ed un elmetto di bronzo, calcato d’intorno alle tempie,
370tu ne le prime file combattere allor mi vedresti,
né, rampognando il mio ventre, staresti a colpirmi d’ingiurie:
adesso, invece, cuore scortese che sei, tu m’ingiuri,
e ti figuri d’essere un forte campione, un grand’uomo,
perché tu sei fra questi dappoco, e non già fra valenti.
375Ma se, tornando, Ulisse giungesse alla terra natale,
ti sembrerebbe angusta, per quanto sian larghi i battenti,
la porta, quando tu la infilassi, per dartela a gambe!»
     Disse: e di cruccio piú fiero s’accese ad Eurímaco il petto: