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CANTO XVIII 115

230Deh!, se mai Giove padre, se Atena volesse ed Apollo
che nelle nostre case dovessero i proci abbattuti
dondolare la testa cosí, rilasciare le membra,
uno dentro le stanze, quell’altro dinanzi alla porta,
come quell’Iro adesso battuto sta lí nella corte,
235col capo tentennante, che un uomo ubbriaco ti sembra,
né si può reggere piú diritto sui pie’, né partire
per rifugiarsi a casa: che piú non lo reggon le gambe».
     Queste parole fra loro scambiarono il figlio e la madre;
ed a Penelope Eurímaco volse cosí la parola:
240«D’Icaro figlia, regina, Penelope scaltra ed accorta,
se ti vedessero tutti gli Argivi con tutti gli Achei,
assai piú pretendenti la vostra magione vedrebbe
da mane a sera, a mensa: ché superi tutte le donne
tu, per aspetto e bellezza, per savia finezza di mente».
     245E a lui queste parole rispose Penelope scaltra:
«Tutte le doti mie distrussero, Eurimaco, i Numi,
le forme, la bellezza, quel dí che verso Ilio gli Argivi
sciolser le vele, e con loro partiva anche Ulisse mio sposo.
Oh!, se tornasse a proteggere questa mia vita il mio sposo,
250molto piú grande sarebbe, sarebbe miglior la mia fama.
Ora mi cruccio: ché i mali su me troppo il demone avventa.
Bene rammento che quando movea, per lasciare la patria,
la destra, palma a palma, mi prese, e mi strinse; e mi disse:
«O sposa mia, non credo che possano tutti da Troia
255tornare sani e salvi gli Achivi dai belli schinieri;
poi che i Troiani, si dice che siano ben prodi guerrieri,
sí nel vibrar la lancia, sí nell’avventare zagaglie,
e nel guidare i cavalli dai piedi veloci, che in breve
della confusa battaglia decidono il duro cimento.