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112 ODISSEA

140dico che nessun uomo dovrebbe mostrarsi malvagio,
bensí godersi il bene che i Numi gli mandano, in pace.
Ora veggio io, per esempio, i proci che ordiscono infamie,
consumano gli averi, rispetto non hanno alla sposa
d’un uomo che, ti dico, lontano dai suoi, dalla patria,
145non resterà piú a lungo; ché anzi è vicino. Ma un Nume
te riconduca alla patria, che imbatter con lui non ti debba,
quando alla terra madre ritorno farà; ché giungendo
alla sua casa, farà giustizia dei proci anche Ulisse;
né, senza sangue sarà, per quanto credo io, la giustizia».
     150Disse cosí, tracannò quel vino piú dolce del miele,
quindi restituí la coppa al signore di genti.
E questi traversò la stanza col cuore in angoscia,
china tenendo la fronte: ché già presentiva il malanno.
Ma non poté neppur egli sfuggire alla morte; ché Atena
155lo trascinò di Telemaco sotto le mani e la lancia.
Dunque, di nuovo ei sedé sul trono onde s’era levato.
     E Atena allor, ch’à glauche le ciglia, a Penelope in mente,
alla figliuola scaltrissima d’Icaro, infuse l’idea
di presentarsi ai Proci, perché di piú ardore avvampasse
160l’alma dei giovani, ed essa piú stima riscoter dovesse
e dallo sposo e dal figlio, di quanta già prima ne aveva.
Senza sapere perché, sorrise ella dunque, e si disse:
«Come non mai prima d’ora, Eurínome il cuore m’ispira
ch’io mi presenti ai Proci, per quanto li aborra; e a mio figlio
165una parola vo’ dire che forse sarà per suo bene:
che troppo insieme ai Proci non resti: ché son quei superbi
pieni di belle parole, ma tramano dietro l’insidia».
     A lei la dispensiera rispose con queste parole:
«Tutte le tue parole, figliuola, son giuste e opportune.