80che Ulisse, mente scaltra, ritorni alla terra nativa,
su via, si mandi Ermète che l’anime guida, argicida,
giú nell’isola Ogigia, ch’ei subito dica alla Ninfa
dalle ricciute chiome, ch’è nostro immutabil consiglio
che deve Ulisse, cuore tenace, tornare alla patria. 85Ed io, frattanto, ad Itaca andrò: ché spronare suo figlio
vo’ piú che prima, in seno gli voglio spirare ardimento,
che chiami a parlamento gli Achei dalle chiome prolisse,
e a tutti i Proci opponga divieto che sempre le pingui
greggi gli sgozzino, e i tardi giovenchi dai corni ricurvi; 90e poi lo invierò a Sparta ed a Pilo sabbiosa,
perché notizie chiegga, se mai possa averne, del padre,
e tra le genti possa lodato suonare il suo nome».
Come ebbe detto ciò, si legò sotto i piedi i calzari
d’oro, fragranti, belli, che lei sopra l’umido gorgo 95e sulle terra portavano, insieme agli spiri del vento;
e l’asta salda impugnò, con la lucida cuspide aguzza,
grande pesante massiccia, con cui dei guerrieri le schiere
prostra, quando ira la vince, la figlia di Giove possente.
E da le vette d’Olimpo giú precipitò con un balzo, 100e tra le genti d’Itaca stette, al vestibol d’Ulisse,
sovra la soglia de l’aula, stringendo la lancia di bronzo,
simil d’aspetto all’ospite Mèntore, sire dei Tafí.
E trovò dunque i Proci magnifici. Stavano appunto
li, dinanzi alla porta, godendosi al giuoco dei dadi, 105seduti sopra pelli di bovi che avevano uccisi.
E banditori ad essi d’attorno; e gli svelti valletti,
questi mescevano il vino con l’acqua negli ampi cratèri,
quelli tergean con le spugne dai mille forami le mense,
e le ponean loro innanzi: tagliavano scalchi le carni.