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XLVI PREFAZIONE


Nell’Odissea c’è una duplice serie di miti.

Una, di miti già formati al tempo d’Omero, e che il poeta raccoglie piú o meno fedelmente, dando ad essi la incomparabile veste dei suoi magici esametri. Questa origine la conoscevamo; ma ora la vediamo piú chiara. Dietro l’occhio rotondo, che, trafitto dal palo infocato d’Ulisse, stride, fúmiga, sprizza sangue, vediamo il roggio cratere del vulcano in eruzione. Dietro ai tentacoli mostruosi di Scilla vediamo levarsi, con un guaiolío misterioso, l’alta rupe càlabra traforata di caverne. Entro le pupille delle Sirene vediamo ridere la luce favolosa della marina di Capri.

Ma nuovo, e piú interessante, è vedere il mito che primamente nasce nell’animo del poeta, la trasformazione della realtà in poesia. L’Odissea, osservata coi nuovi criterî, ne offre numerosi esempi.

Per esempio, il Bérard, ricorda che nei paraggi di Scilla si pesca il pesce spada. Ed ecco, descritta da un viaggiatore, la pesca singolare: «I pescatori sono in una barca detta luntra, lunga diciotto piedi, larga otto, profonda quattro. La prora è piú spaziosa della poppa, per poterci stare l’uomo che vibra la lancia. Questa è di legno di càrpino, rigida, lunga dodici piedi, con una cuspide lunga sette pollici, irta ai lati di altri due ferri detti orecchie. Ritto sulla prora, il lanciere spia il pesce spada, e, appena lo vede, lo colpisce».

Come non ricordare Ulisse quando si avvicina a Scilla?

                                                  l’armi belle mi cinsi,
strinsi nel pugno due lunghe zagaglie, e sul ponte mi posi,
a prora; ché di qui m’aspettavo che Scilla apparisse.